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Un emigrato sui generis

Mentre la mia “prima personalità” in questo periodo si sposta molto, più di quindicimila chilometri in meno di quattro mesi, and counting, io sono rimasto al tappeto per un bel po’, colpito da un doppio pugno in faccia. Ho cercato di rialzarmi scrivendo di altro e scrivendo in un altro modo. Ma non ha funzionato granché. E non ho funzionato un granché.

Sì, è vero: laggiù nel mondo reale stanno accadendo cose che pare, sembra, forse vanno nella direzione giusta.

Finalmente.

E così eccomi qui ad aspettare non uno, ma ben due Godot personali. Viaggiare molto significa ovviamente dover stare lontano da Casa. Viaggiare molto ha significato stare lontano e per molto tempo anche dal luogo in cui sono nato.

Questa sera, che sono in una città italiana del nord che fa di tutto per dirsi ben lontana da quell’altra città del centro (che per qualcuno è la prima città del sud) e che invece a me sembra solo una delle tante città italiane (pos che non funziona, fatturazione che non funziona, un clima appiccicoso, umido, ma così umido che non funziona neanche lui e non è mai stato così vero che chi ci nasce sono i Poveri Bimbi di), da solo, in un albergo così lontano da quello di Toronto (ma lì non pagavo io…), ho deciso di mettere giù qualche parola su due incontri. Uno a Toronto, uno nella città in cui sono nato.

Due incontri, dice GoogleMaps, a quasi settemila chilometri l’uno dall’altro.

Eppure, due incontri fatti della stessa pasta.

Toronto, Sligeach

Di Toronto la prima cosa che non ho visto è stato il cielo. Adoravo la mia Casa di Finglas perché il cielo non dovevi cercarlo: era lui a entrarmi in casa. Invece là l’orizzonte diventava quello che resta di una lunga linea di cemento e acciaio e vetro.

Sperso tra questi orizzonti umani e verticali che non mi appartengono, non ho tardato a trovare un porto sicuro.

Un Irish pub.

Ci sono entrato prima da solo, poi con un olandese e un tedesco. E non è stato tanto l’entrarci da solo, ma l’entrarci con qualcuno che con l’Irlanda non aveva niente a che fare a farmi sentire a Casa. Ero, in quel momento, e in quel momento per la prima volta, anche se solo per qualche giorno, ciò che non ero mai stato prima: un emigrato a pieno titolo, straniero in un paese straniero e, in quel paese doppiamente straniero, in cerca di identità, di appartenenza. E, sì: anche di compagnia.

E di una Guinness.

Il publican era un ragazzo di Sligo. E io lo so che si dice Sligeach, perché sono dannatamente fiero delle mie cúpla focal. È stato parlando per qualche minuto di Sligo con il publican che, per un attimo, è stata Casa.

Five in a row

Quasi settemila chilometri dopo, una strada della città in cui sono nato.

C’era una volta un altro me che di soprannome faceva l’orso. E non parlava con gli sconosciuti.

Parlava poco anche con i conosciuti a dire la verità.

Ma il nuovo me non ha saputo resistere quando ha visto una maglia azzurra della mia Città in quella strada della mia città. Dovevo sapere.

Chiedo al proprietario della maglietta se viene da Dublino e, sì, è da lì che viene. Si è trasferito che ci siamo quasi esattamente dati il cambio. Si è trasferito perché la moglie non sopportava il clima.

Neanche io, neanche quella mattina, così umida e piena di zanzare tigre nonostante il settembre. Era la mattina del replay della finale. De La Finale. È andata bene, abbiamo vinto: five in a row.

Solo qualche minuto. Ma di nuovo quella stessa sensazione. Quello stramaledetto senso di appartenenza. Ero a casa e, insieme, improvvisamente, in barba a zanzare e umidità, ero a Casa.

Ecco, e ora ditemi che non sono irlandese.

dav

About maxorover

Ebbene sì. Max O'Rover parla anche Italiano. E in Italiano scrive. Un Irlandese con la geografia contro, ecco chi è Max O'Rover. Il falso vero nome (quindi vero o falso?) di Max O'Rover è, ovviamente, in Irlandese: Mach uí Rómhar. "Rómhar" è il ventre, ma anche il ventre della terra, quello in cui crescono i semi, in cui nascono gli alberi. Mica male per essere uno che non esiste, avere un cognome così evocativo. Prima o poi la scriverò, la vera falsa storia degli uí Rómhar. La storia del perché ci hanno cacciato via. Una storia fatta di boschi sacri che non abbiamo difeso, di maledizioni scagliate contro di noi da Boann. Un pugno di druidi falliti costretti a scendere a sud. Fino a che la maledizione sarà spezzata. Fino a quando potremo tornare. Quando sono in pausa pranzo, ogni giorno, mangio una mela. Non getto mai i semi della mela nella spazzatura. Li getto nel prato. Perché sotto sotto ci credo, alla maledizione. Mi ricordo la maledizione. Ma non ricordo quanti alberi devo far crescere: dieci? Mille? Un milione? Intanto continuo a gettare i semi nel prato, e ad aspettare il ritorno a casa.

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