Qualche giorno fa abbiamo assistito a una delle repliche di Waiting For Godot allo Smock Alley Theatre. Ecco alcune nostre impressioni.
Beckett ai tempi delle stelline…
O, se volete, Beckett dopo Fantozzi.
Sono andato a vedere Waiting For Godot qualche giorno dopo che era rimbalzato sui social uno di quei post in cui si elencavano stroncature di capolavori della letteratura da parte di utenti di social network.
Un fenomeno che deriva da quella corsa alla semplificazione ben raccontata da Alessandro Baricco in I Barbari.
Tutto, per farla breve, cominciò con il dare le “stelline” ai vini. Il vero problema è che poi si è cominciato a dare le stelline a qualsiasi cosa e, mentre la democratica moda del voto con le stelline si espandeva, a quanto pare si contraeva (chissà, forse con una correlazione diretta…) l’attenzione nell’attribuirle, le maledette stelline.
O, forse, ancora peggio: si contraeva la volontà e la capacità di assegnare le stelline con qualche cosa in più del perché sì mi va così, qui e ora. Siamo finiti, in sostanza, in quel territorio di fantozziana memoria per cui la Corazzata Potemkin è… Beh, ci siamo capiti, no?
A Waiting For Godot at Smock Alley ci sono arrivato dopo che mi ero guardato (tutta colpa mia, quindi) un po’ di stelline date a questo che è probabilmente il più importante testo teatrale del Ventesimo Secolo.
E ce ne sono di “una stella” per Godot.
Non la maggioranza, certo, ma ce ne sono.
Mi aveva però colpito in particolare una recensione, associata a una stellina solitaria, in cui il caro utente di social si era profuso in uno sproloquio di una certa lunghezza, diverse decine di righe, per poi finire, sostanzialmente, ad attribuire al Godot di Beckett le stesse qualità sostanziali della Corazzata di Fantozzi.
La prima cosa che mi è venuta in mente dopo aver letto è stata una brutta trama di romanzo:
serial killer ossessionato da Beckett scova e uccide (impiccandoli a un albero nelle notti di luna piena, ça va sans dire) detrattori del Maestro scovati sui social.
E poi che è successo? Ho invidiato il signorunastellinaabeckett. Perché l’unico motivo per non comprendere che cosa è Waiting For Godot è avere avuto nella propria vita la fortuna, davvero invidiabile, di non essersi mai trovati nella situazione, tutt’altro che invidiabile, di essere senza passato e, soprattutto, senza futuro come Vladimir e Estragon.
In realtà può esserci anche un altro motivo: avere tanta empatia quanta ne consenta l’avere un cassetto di una cucina Ikea al posto del cuore, ma qui si andrebbe fuori tema.
L’esattezza di Waiting For Godot at Smock Alley
E in questa versione di Waiting For Godot quella maledetta sensazione (certo sì: un po’ di empatia per coglierla si deve averla) che il non succedere nulla possa ripetersi all’infinito, ben oltre le due volte (una per atto, come da copione) si sente, eccome.
Questa la carta d’identità dell’edizione:
- Regia: Patrick Sutton;
- Cast: Charlie Hughes, Donal Courtney, Simon Stewart, Ronan Dempsey, Torsten Brescanu & Rory Smyth;
- Scenografia e luci: Colm McNally;
- Photografia: Jim Byrne.
Charlie Hughes e Donal Courtney sono Vladimir ed Estragon. Lo Smock Alley è un teatro abbastanza piccolo, e la rottura della barriera con il pubblico è ancora più facile: hanno tenuto benissimo scena e proscenio, con qualche sconfinamento ancora più coraggioso verso il pubblico.
Tra i due mi ha emozionato di più Hughes, con la sua reiterazione della mimica e dei movimenti. Ronan Dempsey è Pozzo: a mio parere l’interpretazione è un po’ troppo sopra le righe, o forse, semplicemente, sono io che lo vedo uscire sconfitto nel confronto con la sua controparte diretta, il Lucky interpretato magistralmente da Simon Stewart.
Tra i quattro personaggi Lucky è quello più difficile, per certi versi: ha meno spazio, ha bisogno di estrinsecare una fisicità più marcata rispetto agli altri, ha un unico “suo momento” in cui si definisce tutto il suo peso nell’economia della rappresentazione e Stewart ha catturato letteralmente tutto il teatro, quando il “suo momento” è arrivato.
In conclusione, una esecuzione estremamente solida, con un Pozzo a esplorare territori più grotteschi e un Lucky “alla riscossa”, se si passa l’espressione.
Una esecuzione che, senza ombra di dubbio, riesce a far trasparire tutta l’angoscia dell’inutile attesa che è il vivere e che è il buco nero attorno al quale gravita questa macchina beckettiana.
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