A cena, ho ascoltato il filosofo Mario Perniola parlare di pensiero debole e di candomblé (purtroppo il mio orario di arrivo a Dublino non mi permetteva di seguire la sua conferenza). Diceva che nella trance dei riti centroamericani un componente della comunità viene posseduto dalla divinità. Diventa tramite del dio. Si fa medium, per l’appunto, di comunicazione fra il terreno e l’ultraterreno.
Ho riflettuto su come invece il patrimonio di credenze popolari irlandesi faccia spesso a meno di queste figure. E quindi anche di estenuanti cerimonie di ritualizzazione.
In italiano chiamiamo Regno della Luce Fioca la dimensione soprannaturale. È assai suggestivo ma ci perdiamo, naturalmente, qualcosa. Ci perdiamo l’aggettivo flickering che richiama la danza incerta della candela. La luce temolante della veglia comune dove si raccontano gli incontri con il Piccolo Popolo, la Banshee che geme nel vento, le apparizioni degli spettri. Cose che possono capitare a tutti e che, proprio perché esulano dalle nostre capacità di comprensione, vengono messe al vaglio del racconto, alla prova delle proprie parole e dell’ascolto altrui.
È anche questo un rituale, certo, ma completamente delegato alla parola e svincolato dalla fisicità.
Sono due modi opposti di accedere a un’altra dimensione. Ai tropici ci si arriva attraverso l’esasperazione della fisicità, l’obnubilamento della coscienza, più a nord attraverso la tenacia della memoria e l’arte tutta incorporea del racconto.
Con un paio di Guinness in corpo finisco a teorizzare che sia questa l’origine del debordante talento irlandese per il racconto. Poi a pensare agli incontri con il Diavolo e alle estasi mistiche (mmm…) di certe suore lucchesi che andrò a raccontare a Cork. Ma questa è davvero un altra storia.