Tatuaggi irlandesi, ovvero storie da raccontare. Come questa che ci racconta il nostro irishinside Matteo.
Qualche anno fa decisi di farmi il mio primo tatuaggio, un’arpa. La scelsi, la ridisegnai e me la feci incidere sulla schiena in più battute.
Il primo commento di mio suocero fu: “anch’io marchiavo i vitelli da giovane!”
Da quel momento capii che qualsiasi cosa avessi scritto o disegnato sulla pelle non sarebbe comunque stata compresa e, in fin dei conti, era quello che volevo.
Ho un concetto molto egoistico del tatuaggio: non lo vedo come una sorta di esibizione o di decorazione, ma di un qualcosa di profondo, e io, da spettatore inerme, lo subisco come una stigmate che compare all’improvviso.
Trascorsi un paio d’anni e un po’ di voli avanti e indietro da Casa, qualcosa stava nuovamente nascendo sotto la pelle.
Non mi sono mai sentito italiano, nemmeno durante i Mondiali. Mi sento diverso da questo popolo che non ho mai guardato con molta simpatia.
La differenza tra me e l’italiano medio è evidente: non amo particolarmente il sole e il clima mediterraneo, il sudore cola se il termometro supera i 20 gradi (sì, 20…). Il ritmo della vita mi logora al punto da ammalarmi cronicamente. E la gente.
La gente… Non so come descrivere senza offendere l’italiano medio per come lo vedo: una stirpe nata dai rimasugli di invasioni su invasioni e mai unita da uno spirito unico, che accomuni gli uni agli altri. Italiota, colono, non autoctono: tutti abitanti comunque di un luogo dove in fin dei conti nessuno Vive. L’unica cosa che tiene uniti gli italiani è il calcio, lo “sport” che odio in assoluto. LO ODIO.
Quello che mi è sempre mancato è lo SPIRITO DI APPARTENENZA.
Lo trovai là.
Mi affascinava la storia di un popolo che, martoriato dalle invasioni e dalla carestia, si era rialzato con dignità era stato protagonista del suo destino grazie all’unione delle sue genti.
Ho sempre ammirato chi, fiero delle proprie origini, ha combattuto per rivendicarle, unendosi.
Nel 2014 iniziai a visitare i luoghi della memoria: dalla casa di Pearse a quella di Daniel O’Connell fino a Dublino con i suoi palazzi e Kilmainham Gaol.
Nella stupenda spiaggia di Derrynane House ancora tirava il vento della libertà, così come nello Stonebreakers’ Yard di Kilmainham Gaol, intriso del sangue versato per una Patria indipendente: tutte cose che i giornali di oggi gridano a grandi titoli inconsapevoli dello spirito che animò veramente le genti…
Questa sensazione di distacco ha trovato il culmine quando mi resi conto che le celebrazioni per il centenario dell’Irish Easter Rising coincidevano con la Festa della Liberazione Italiana e del Centenario del Primo Conflitto. Quale miglior occasione per suggellare il mio patriottismo e la mia appartenenza? Fuggire dall’Italia per festeggiare la mia Nazione adottiva!
Quella sera ero alla cena mensile dei “Succulenti”, dove a turno uno di noi quattro amici di sventura si offre di preparare un menù a tema, cucinato in casa o in un luogo inusuale.
La volta successiva era il mio turno e la battuta arrivò puntuale:
Ivan: “Irish, hai pensato al tuo prossimo menù?”
Io: “Bah, pensavo ad una grigliata…”
Ivan: “Che banale. Perché non ci porti a mangiare irlandese in un pub, ma un pub Vero?!”
Il genio della compagnia: “TripAdvisor consiglia Fagan’s a Drumcondra”
Occhiate d’intesa e di sfida.
Dicembre: volo prenotato, amici al settimo cielo, moglie inc*ta.
Ok, le avevo mandato solo una foto su WhatsApp con le nostre facce sorridenti e con scritto EI423…
Avevo cercato a Dublino un tatuatore e, tra i tanti, avevo scelto quello su Wellington Quay: vicino al centro per seguire la celebrazioni al GPO e altrettanto vicino a Temple Bar per festeggiare adeguatamente…
24 Aprile 2016, Wellington Quay ore 14.00
Era un negozio con all’interno un barber shop “alla moda” da cui uscivano barbe fashion e capelloni dai tagli asimmetrici.
Un’insegna diceva anche: “enjoy our fabulous roasted Irish coffee” e così mi servii di un mug: era veramente buono, era irlandese!
Nonostante avessi deciso il disegno da mesi, al momento cambiai idea. Il Pearse che vive dentro di me spiegò a Ian, il giovanotto tatuatissimo che doveva marchiarmi, dove e cosa fare.
40 minuti dopo ero pronto! Ero Irlandese dentro e fuori: Erìn go Bràch a pieni polmoni!
I miei due fidi compari erano a Temple Bar ad aspettarmi per brindare alla salute mia e dell’irlandese dentro di me e vi assicuro che fu una grande pensata essere a poche centinaia di metri dai Quays…
Dopo qualche pinta, il GPO ci aspettava per il mio “battesimo” con tanto di fanfara e veterans in pompa magna.
La giornata la trascorremmo anche noi come dei National Volunteers al bancone del pub a parlare dei bei tempi e a decidere, con estrema precisione, a che ora sarebbe arrivata la fame e recarsi da Fagan’s.
La cena assunse un ruolo secondario nel weekend, ovviamente… Ma anche stavolta suonammo la campana dei last orders e rimanemmo incollati agli sgabelli del bancone al punto di farci regalare dal publican tre accendini firmati pur di farci andar via. Non fu di aiuto la nonnetta sui settanta che all’ultimo giro ordinò tre whiskey per sé…
E tre per noi, riconoscendo la nostra inflessione veneta.
Tornai in Italia orgoglioso del mio nuovo “marchio”e non nego che l’aver scritto una frase che, tradotta, ha un significato così “banale” agli occhi altrui mi diverte e rende ancora più intimo il legame che ho con questo popolo.
Quando guardate un tatuaggio non fermatevi soltanto alla bellezza del disegno, ai colori, ma provate anche solo un minuto a cercare un significato più profondo. Un tattoo è per sempre, è una dichiarazione che rimarrà tutta la vita e anche se è semplicemente un Triskel o uno Shamrock chi lo indossa avrà sicuramente una storia da raccontare…
Matteo Irish Caveggion