Samuel Beckett. Un inadeguato di successo. Il cantore dell’inadeguatezza. Un autore che, oggi, anche per “colpa” di Internet, è associato a una parola che non era esattamente uno dei suoi temi preferiti: il successo, appunto.
Googlando Beckett
Beckett è: personaggi che non hanno più niente da dire perché non esiste più niente, e quindi continuano a esistere solo perché dicono. Uno degli input che mi hanno spinto a scrivere questo post è stato la lettura dell’introduzione scritta da Gabriel Josipovici alla Trilogia (Molloy, Malone Dies, The Unnamable).
Per Josipovici Beckett è l’apice della disintegrazione del valore dell’io iniziata con la filosofia post – romantica. In particolare, nella Trilogia è utilizzato l’Io narrante ma, al contrario che per gli “illustri” predecessori (Sant’Agostino e Rousseau con le loro autobiografie), l’Io narrante non ha assolutamente niente di… Maiuscolo: è un soggetto che sa poco e quel che sa lo sa soltanto mentre lo dice.
Nondimeno il soggetto svela, immediatamente, il trucco: Molloy scrive per qualcuno, il qualcuno lo paga, ma Molloy confessa, nella prima pagina del romanzo che porta il suo nome
Yet I don’t work for money. For what then? I don’t know.
Molloy confessa e mente a un tempo: sa benissimo che lavora, che scrive, per esserci. Per farsi carico di un pezzo di fardello dell’esistenza.
Una delle frasi che ricorrono spesso quando si googla, per l’appunto, Beckett è:
The only sin is the sin of being born.
Frase che in realtà nasce da una riflessione di Beckett sull’originale di Calderon de la Barca riportata nel suo Proust.
Frase però che acquista il suo significato completo con l’altra, famosissima citazione:
You must go on, I can’t go on, I’ll go on
(Da The Unnamable)
Un Io senza senso che continua a blaterare. Un Io che sembra tanto made in Internet…
Un Beckett per tutte le stagioni
Avevamo già “giocato” a mescolare Beckett e Internet. Avevamo detto che alcune delle opere di Beckett “puzzano” di Internet. E a quanto pare ci avevamo visto giusto, perché negli ultimi mesi Beckett si sta ritagliando una web-fetta non indifferente. Soprattutto, Beckett sta, suo malgrado, riscontrando un trionfo cinico, amaro, della sua posizione sull’Io che scrive (solo) per esserci.
Ci sono “pezzi” di Beckett che vengono utilizzati per dimostrare una tesi, per validare una posizione.
Troviamo Godot (anzi: Godòt…) tirato in ballo a proposito del maltempo.
Troviamo la più abusata delle citazioni beckettiane
Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.
Worstward Ho
tatuata sul braccio di un tennista (Stanislas Wawrinka) e, da quel braccio, la vediamo diventare virale, con risultati magari come questo:
Oppure la stessa frase la troviamo citata in articoli che riguardano le StartUp, le “miracolose” aziende (anch’esse, molto spesso) made in Internet che sanno rigenerarsi dai loro stessi insuccessi.
Una analisi, potremmo dire, “buonista” di Beckett, tale da generare addirittura una esibizione alla Trinity’s Science Gallery di Dublino dedicata, diciamo così, ai fallimenti di successo.
L’emblema dell’esibizione è a mio parere questa stampante che sputa i tweet contenenti #failbetter.
Parole sputate via senza senso, dette per essere dette, certo non per essere ascoltate, o lette.
Ma è proprio qui, dove si rischia di ridicolizzare Beckett, che Beckett trionfa: quando cinquanta, quaranta, trenta anni fa ci diceva che il senso del significato era morto, Beckett aveva ragione.
E Molloy somiglia, in quella prima pagina del suo romanzo in cui gli portano via le sue pagine, a quei copy che, armati di belle speranze e una laurea in Lettere, finiscono a parlare di scarpe o cioccolata, di formaggi o biancheria intima, magari citando Rostand o Shakespeare perché non hanno nessun altro posto in cui metterle, quelle parole.
Rostand o Shakespeare.
O Beckett.