SPLF Flash Fiction Contest 2019 – Risvegli

Lo sapevo. È successo ancora.

Qui, la notte prima del ritorno a casa, finisce sempre così, è matematico. L’ennesimo viaggio memorabile: nuove città, nuove coste e scogliere, spiagge e verdi brughiere (cit.), pub, sapori, persone, fari, strade, esperienze e conoscenze. Un intero bagaglio di immagini e ricordi che però saranno lucidamente disponibili almeno tra quarantotto ore: il tempo necessario per uscire da questo hungover.

Seduto sul letto, spaesato da qualche minuto, cerco la forza di sollevarmi sulle gambe ed è solo l’impellente bisogno di andare in bagno a darmi l’input. Guardo gli altri due compagni di viaggio ed il buongiorno è un artrosico cenno con la testa. Non mi soffermo sui loro volti, ma ho colto perfettamente che non sono il solo a percepire i movimenti ondulatori di questa stanza. Lavare i denti è un affronto al buon senso. Il mentolo granulato mescolato al sapore inspessito di orzo tostato, verdura e spezzatino di manzo dovrebbe essermi vietato. Urino con gli occhi chiusi ed una mano appoggiata alla parete. L’odore nella stanza è indicibile. I postumi da Guinness e Irish Stew sconfessano sempre le nostre buone maniere: scommetto che al naso sopraffino di un esperto potrebbero persino riconoscersi note di pastinaca. Finestre spalancate ed aria gelida faticano a creare un riciclo decente, ma quantomeno affrettano la preparazione degli zaini.

Il volo per l’Italia è alle 5 pm e mi rasserena sapere che ho poco più di sei ore per riprendermi. L’impatto con l’atmosfera esterna è un trauma, l’ennesimo stamattina. La luce grigia abbagliante ed il freddo umido di febbraio si manifestano come uno schiaffo improvviso. Rimango con il fiato sospeso per un secondo, poi rinsavisco e gradualmente compare sfocata una qualche strada nella zona di Ballsbridge. Con la vista ritrovo anche il senso di nausea e quell’impressione di avere in testa un casco. Posso almeno confermare che l’espresso eroicamente ingerito prima di uscire non ha influito sul mio status. E’ religione: una giornata, per chiamarsi tale, non può iniziare senza un caffè, schifoso che sia.

Intorno è tutto confuso, solo il susseguirsi delle caratteristiche porte dublinesi delle palazzine in Pembroke rd crea un ritorno sensoriale piacevole di momentaneo equilibrio. Il freddo però è tagliente e la sferzata di vento che mi travolge sul Gran Canal rivolta nuovamente gli intestini e tutti i contenuti. Si cammina letteralmente gettando una gamba davanti all’altra ed osservando il resto della città attoniti: tutta questa gente che fa cose normali in modo normale ci appare come aliena. I pensieri sono lenti e sconclusionati, facilmente interrotti da riflessioni profonde, così, come quando al primo attraversamento pedonale leggi sull’asfalto “Look Left”. Vedi che allora lo sanno, quei bastardi di inglesi, che guidare al contrario è anti – istintivo?

Vaghiamo senza una meta precisa, per quell’insensata convinzione che una boccata d’ossigeno, in queste condizioni, risulti salutare. La scelta della strada è casuale e, avendo svoltato verso Merrion Square Park, lo costeggiamo proseguendo, quasi inconsci, fino al Liffey. Ci accorgiamo solo sul Sean o’Casey Bridge che è stata una pessima decisione arrivare al fiume. L’unica fortuna è che il vento gelido tira dal porto, e forse, adesso, averlo in poppa aiuta. Un’occhiata furtiva alle sculture del WPS mentre le oltrepassiamo: pazzesco come mi affascinino e angoscino le espressioni disperatamente realistiche di quelle statue. Ma le dimentico subito perché sono pervaso da un intollerabile senso di debolezza che si diffonde nei muscoli delle gambe. Non si molla niente. Passo dopo passo, costeggiamo il Liffey, evitando saggiamente di osservare il suo scorrere per sfuggire ad un eventuale effetto labirintite.

Quanto manca a Temple bar? e tra l’altro, perché Temple bar? Sembra che non si conosca altro qui. Non c’è scampo, immancabilmente ricadiamo nel vortice della Dublino caotica, festosa, alcolica, straturistica e troppo expensive. Dipendenti da “Craic”

Mani in tasca. Non servono foto: sono luoghi sufficientemente familiari. Sono strade già percorse. Il tempo scorre, il numero di chilometri calpestati non li conto ma li avverto tutti negli arti indolenziti. Non sento più il freddo ed è una lucida considerazione stilando la lista delle cose per cui lamentarmi.

Estraniato, mentre avanzo per inerzia, ho dei flash, dei fermo immagine, di quel che sono stati i giorni appena trascorsi: i colori di Kinsale, le soste lungo la costa sud fino a Slae Head, il Conor Pass con la nebbia. Persino le musiche mi rimbalzano nelle orecchie e per minuti interi mi intrippo con “And it’s no, nay, never… no, nay never no more” fino a quando sollevo lo sguardo.

Onestamente non sono la persona più entusiasta del mondo nel trovarmi di fronte il Gogarty’s e non saprei nemmeno descrivere come ci siamo già arrivati (non eravamo dall’altro lato del fiume?) ma lì mi ci hanno portato e lì, ora, entriamo perché esigo un posto caldo ed una sedia. Mezzogiorno ormai, di un lunedì invernale ed è pieno di turisti. Già attivi anche un paio di musicisti in libera uscita da geriatria, che però intrattengono i bencapitati con una vitalità invidiabile.

Finalmente un tavolo. Appoggiamo poco delicatamente gli zaini, ci liberiamo dalle giacche e ci accomodiamo esausti. Dieci minuti di niente: come diceva Vasco, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi. Osserviamo chi lavora, annuiamo al passaggio del sedere di una turista presumibilmente spagnola, sorridiamo alle ballate familiari, scrolliamo le spalle, cediamo sullo schienale, alzo il braccio in direzione del banco. Poi, il ragazzo mi considera e allora, con dita e labiale ordino, senza indugio…
“Three Guinness”

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Massimiliano "Q-ROB" Roveri writes on and about Internet since 1997. A philosopher lent to the IT world blogs, shares (and teaches how to blog and share) between Ireland and Italy.

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