Smontando Godot – Intervento al San Patrizio Livorno Festival Numero Zero, 17 marzo 2018
1 – Abstract
Un viaggio dentro i meccanismi dell’opera più celebre di Samuel Beckett. “Aspettando Godot” è una di quelle opere che tutti sono convinti di conoscere in virtù di quel protagonista che non arriva mai, ma questo testo è davvero molto di più del contenitore di un personaggio proverbiale.
2 – Di cosa parliamo quando parliamo di Godot
Un veloce sondaggio (domande al pubblico):
- Quanti hanno visto Aspettando Godot a teatro?
- Quanti hanno letto il testo?
- (a chi non ha mai alzato la mano): tu sai di cosa parla Godot?
Anche chi non ha mai visto questo testo a teatro o non l’ha neanche mai letto ha comunque una qualche sua idea su quest’opera e una qualche ipotesi su chi è Godot.
3 – Fruttero lo aveva previsto
“ Non stupisce che Godot stia entrando nella mitologia popolare, e si avvii a diventare un’espressione idiomatica. Come quello di Joseph K. il suo nome vorrà dire, d’ora in poi, molte cose. ”
(Così Carlo Fruttero, dalla prefazione alla prima edizione italiana di “Aspettando Godot”, Einaudi, 1956, da lui tradotta)
4 – Come è “fatto” Godot?
Nel primo atto due uomini vestiti come vagabondi, Estragone e Vladimiro, si trovano sotto un albero in una strada di campagna. Sono lì perché un certo Godot ha dato loro appuntamento.
Il luogo e l’orario dell’appuntamento sono vaghi. I due non sanno neanche esattamente chi sia questo Godot, ma credono che quando arriverà li porterà a casa sua, gli darà qualcosa di caldo da mangiare e li farà dormire all’asciutto. Mentre attendono passa sulla stessa strada una strana coppia di personaggi: Pozzo, un proprietario terriero, e il suo servitore, Lucky, tenuto al guinzaglio dal primo. Pozzo si ferma a parlare con Vladimiro ed Estragone. I due sono ora incuriositi dall’istrionismo del padrone, ora spaventati dalla miseria della condizione del servo.
Lucky si rivela tuttavia una sorpresa quando inizia un delirante monologo erudito che culmina in una rovinosa zuffa tra i personaggi. Pozzo e Lucky riprendono il loro cammino. Intanto è calata la sera. Godot non si è fatto vivo. Arriva però un ragazzo, un giovane messaggero di Godot, il quale dice a Vladimiro e a Estragone che il signor Godot si scusa, ma che questa sera non può proprio venire. Arriverà però sicuramente domani. I due prendono in considerazione l’idea di suicidarsi, ma rinunciano. Poi pensano di andarsene, ma restano.
Il primo atto finisce qui.
Nel secondo atto accadono esattamente le stesse cose.
Vladimiro ed Estragone attendono sotto l’albero l’arrivo di Godot. Di nuovo vedono passare Pozzo e Lucky (Pozzo nel frattempo è diventato cieco, sull’albero sono spuntate due o tre foglie). Di nuovo si intrattengono con il padrone e il servo. Di nuovo Pozzo e Lucky se ne vanno. Di nuovo arriva il messaggero a dire che Godot stasera non può venire ma verrà sicuramente domani. Di nuovo prendono in considerazione l’idea di mollare tutto. Di nuovo rinunciano.
Fine.
5 – Una recensione del 1956
“ Aspettando Godot è riuscito a vincere una sfida impossibile: è una commedia in cui non accade nulla eppure tiene gli spettatori incollati alla sedia.
Di più: dal momento che il secondo atto è una lieve variante del primo, Samuel Beckett ha scritto una commedia in cui non accade nulla.
Per due volte. ”
(Vivian Mercier, “The Irish Times”, 1956)
6 – Un meraviglioso diversivo
Come nasce questo capolavoro?
In modo del tutto inaspettato.
Beckett iniziò a scrivere “Aspettando Godot” per distrarsi (sic!) in una pausa di lavorazione alla scrittura in prosa, dopo aver concluso “Malone muore” e prima di mettersi al lavoro su “L’Innominabile”, dunque tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949.
Ricorda la biografa Deirdre Bair:
“ Beckett, che non aveva allora alcuna idea delle tendenze teatrali del tempo, considerò lo scrivere per il teatro un meraviglioso e liberatorio diversivo ” .
Beckett, soprattutto dietro l’incitamento encomiabile della futura moglie Suzanne, iniziò a proporre il testo a diversi impresari ottenendo una terribile serie di rifiuti.
Nel 1950 il manoscritto di “Aspettando Godot” venne letto dal regista Roger Blin il quale pur non capendo nulla dell’opera si sentì sfidato da quel testo e fu conquistato dall’idea di metterlo in scena.
Una serie di problemi (tra cui la morte della madre di Beckett, la difficoltà nel ricevere finanziamenti per la messa in scena e l’indisponibilità di molte sale teatrali) fecero slittare la prima rappresentazione di Godot di quasi tre anni, fino a quello storico 5 gennaio del 1953.
7 – Fare i conti con uno spazio ristretto
Ecco come il regista Roger Blin ricorda la prima messinscena di “Aspettando Godot” (il testo è apparso in “Artaud, Beckett, Genet e gli altri”, Audino editore, 2010, a cura di Lynda Bellity Peskine):
“ Il Babylone era un magazzino trasformato in teatro con un palcoscenico di quattro metri di profondità e sei di larghezza, che conteneva circa duecentotrenta persone. Dovetti fare i conti con uno spazio ristretto: il palco del Babylone era in piano ed era necessario creare una pendenza affinché l’albero fosse in alto rispetto al resto della scena.
L’albero era un lungo appendiabiti coperto con carta crespata L’albero fu realizzato da uno scenografo con maglia metallica ricoperta di carta dipinta. Per l’illuminazione, Beckett dà come unica indicazione «sera», ma è impossibile recitare per due ore nella penombra. Installai allora sul fondo del palco dei proiettori nascosti dietro, in un piccolo avvallamento ritagliato nel compensato, contrastati dall’alto da tre proiettori a doccia.
Con tre grandi bidoni contenenti lampadine elettriche furono costruiti i proiettori Utilizzammo un fondo scena trasparente dietro il quale un proiettore, regolato per non abbagliare, irradiava una luce diffusa. Un tecnico faceva in modo che questo proiettore che raffigurava la luna si levasse, mentre noi equilibravamo la luce velocemente, in modo irrealistico ma ritmato, e il giallo spariva a vantaggio del blu.
Una delle valigie che porta Lucky venne trovata in un cumulo di rifiuti dal marito della sarta del teatro, che lavorava come netturbino. ”
8 – Cosa c’è “dentro” Godot?
Nell’incipit di “Aspettando Godot” c’è già tutto.
La desolazione, la comicità, il dialogo serrato, le dinamiche di coppia.
Così come è evidente, anche a uno spettatore non navigato, la commistione tra alto e basso tipica della poetica beckettiana: la regia delle scene “d’azione” (Vladimiro e Estragone che vanno nel panico quando Lucky inizia il suo delirante monologo) ricorda le comiche di Stanlio e Ollio di cui Beckett era appassionato.
E poi si passa senza soluzione di continuità a citazioni bibliche (il riferimento a Matteo, 25, 31-40 in occasione dell’arrivo del messaggero) e teologiche in senso lato.
9 – Quanto tempo è passato tra il primo e il secondo atto?
Tutto lascia supporre che il secondo atto si svolga all’indomani del primo, ma alcuni elementi sono cambiati troppo radicalmente affinché possa essere passata una sola notte: l’albero in scena ha messo le foglie, Pozzo è visibilmente invecchiato ed è diventato cieco.
È logico pensare che questa ambiguità degli intervalli temporali sia voluta.
Vladimiro ed Estragone attendono Godot per un tempo indefinito all’interno del quale ogni giorno è uguale – o meglio estremamente simile – all’altro.
Per spiegare Beckett è spesso utile ricorrere a concetti geometrici.
Qui torna comodo il concetto dell’asintoto che tende a un determinato limite (l’arrivo di Godot, nel nostro caso) senza mai toccarlo.
Beckett mette in scena due punti (atto I e atto II) di questa retta che tende all’arrivo di Godot, ma non è detto che questi due punti debbano essere contigui.
Tra l’atto I e l’atto II di Aspettando Godot è lecito pensare che esista una serie di “atti impliciti” composta da un atto I.1, seguito da un atto I.2, seguito da un atto I.3 e così via, che noi non vediamo in scena, ma che conducono inevitabilmente all’atto II.
Seguendo questa ipotesi, possiamo supporre allora che quando nel secondo atto Vladimiro si stupisce del fatto che Pozzo non ricordi il loro incontro del giorno precedente non si riferisca all’incontro cui lo spettatore ha assistito nel primo atto bensì a quello che deve essere avvenuto nell’ipotetico (e non rappresentato) atto I.n che precede immediatamente il secondo.
Dal punto di vista allegorico – senza volersi addentrare nel gioco dello svelamento dell’identità di Godot (vogliamo rassegnarci una volta per tutte al fatto che Godot è realmente Godot, cioè un ricco possidente terriero che potrebbe davvero offrire un tetto e un pasto caldo a Vladimiro e Estragone ma che ogni sera, alla fine, decide di non palesarsi? Beckett non ha voluto nascondere nel personaggio assente di Godot la metafora di Dio, della fortuna, del destino, o di chissà che altro. Del resto lo disse lui stesso “Se avessi saputo chi era Godot, lo avrei scritto nel copione”) – è particolarmente interessante la riflessione che fa Annamaria Cascetta nel suo saggio Il tragico e l’umorismo:
“ Quel che si deve fare è ‘passer le temps’: l’espressione, ripetuta più volte, assume il rilievo di una chiave: passare il tempo, ma anche protendersi oltre il tempo. ”
L’opportunità, la necessità quasi, di passare il tempo, di ingannare la noia dell’attesa di Godot, è una costante del testo.
Un esempio su tutti: lo scambio di battute che Vladimiro e Estragone fanno nel primo atto, subito dopo che Pozzo e Lucky hanno lasciato la scena. Riferendosi a quel movimentato incontro Vladimiro dice:
“ Ci ha fatto passare il tempo”. Estragone, di rimando: “Sarebbe passato comunque ”. Di nuovo Vladimiro: “ Già, ma non così rapidamente ”.
Senza scomodare Einstein è difficile qui non riconoscere l’idea della relativa percezione dello scorrere del tempo a seconda del contesto.
Quasi che a fronte di certe condizioni lo spaziotempo possa accartocciarsi su stesso e permettere il raggiungimento di punti che in condizioni normali sarebbero inaccessibili.
Torniamo allora all’analisi di Cascetta per sottolineare come un’espressione innocua come “passare il tempo” possa anche essere letta, in Aspettando Godot, come “(oltre)passare il Tempo”, con tutti i significati (anche metafisici) che una simile interpretazione comporta.
10 – Il fattore Balzac
“Mercadet l’affarista” è un’opera teatrale di Honoré de Balzac del 1840.
Il protagonista, Mercadet, è un faccendiere piuttosto imbroglione.
Quando i suoi clienti vedono che gli affari non stanno andando come dovrebbero, Mercadet scarica la colpa sul suo fantomatico socio Godeau.
I clienti sospettano che questo Godeau non esista, ma alla fine della commedia compare in scena pieno di soldi e tutti sono felici e contenti.
Beckett sostenne, interrogato in merito, che non aveva mai letto questo testo di Balzac. Ma nel maggio del 1949, dunque prima dell’inizio della stesura di “Aspettando Godot”, uscì una trasposizione cinematografica di Mercadet.
Nella scena finale del film le affinità con l’opera beckettiana sono sorprendenti.
11 – Finale (con le braghe calate)
Sempre dai ricordi di Roger Blin (dal testo indicato in precedenza):
Beckett voleva assolutamente che alla fine dello spettacolo, Estragone perdesse i pantaloni. In quel momento, l’atmosfera si volge verso il patetico e Beckett recupera con una gag. Latour però, che aveva molta paura di questa scena e che già aveva manifestato la sua apprensione, si limitò ad abbozzare timidamente la perdita dei pantaloni. Nella sala qualcuno rise fragorosamente e questo fece infuriare Latour. Uscendo di scena mi disse: “Io non perderò mai i pantaloni”. Gli risposi: “Sì invece, tu perderai i pantaloni”. Beckett fu informato di questo incidente. Il giorno dopo (9 gennaio 1953) ricevetti una sua lettera che diceva:
“ Una cosa mi preoccupa: i pantaloni di Estragone. Ho chiesto a Suzanne se erano caduti come dovevano e lei mi ha risposto che si sono fermati a metà. Questo non deve accadere. È assolutamente inopportuno. I pantaloni sono l’ultima cosa a cui pensa Estragone in quel momento. Non si accorge neanche che gli stanno cadendo. E anche se il pubblico si mette a ridere non fa niente. Il senso è proprio che nulla è più grottesco di ciò che è tragico e questo va ripetuto fino alla fine. Anzi, a maggior ragione alla fine ”.