Da che cosa iniziare se non da un luogo comune? Se non da quello che tutti si aspettano quando si parla d’Irlanda? Dalla birra e dal pub.
Facile, no?
Così, come per la Guinness ci vuole tempo, perché è una birra che deve riposare prima di essere bevuta, così i miei ricordi dublinesi diventano un post solo adesso, dopo circa tre settimane dal ritorno da Dublino a qui, a Melmopoli.
Tre settimane a Casa. Nuovo record. Tre settimane in cui sono accadute alcune cose importanti e molte cose interessanti. E poi ci sono i ricordi. Le emozioni.
Scheggia numero 1: il pub
E allora continuiamo con i luoghi comuni e iniziamo con un pub. Un pub di cui ho promesso, tra l’altro, di non dire il nome.
Entri nel pub (entriamo: finalmente non ero più da solo, la famiglia quasi al completo era a Casa, finalmente). Fuori piove. La pioggia seria, non un temporale ma è pioggia che ti bagna sul serio, quella.
Ma, come dice il vecchio saggio, dentro al pub non piove mai.
E così entriamo per la prima volta in questo pub. Semivuoto. No: decisamente vuoto, ci sono un ragazzo al bancone e un altro paio di persone. E il publican.
Il ragazzo è Irlandese. Ma sa anche l’Italiano. E ha una storia da raccontare. Il che non guasta. Quelle storie di irlandesi che se ne vanno in giro per l’Europa e a metà della tua età hanno fatto il doppio delle cose che hai fatto tu che hai il doppio di loro.
Il ragazzo, due pinte e un whiskey, ha un treno da prendere. Si fa dire dal publican quanto tempo esattamente gli servirebbe per arrivare alla stazione, perché così può chiacchierare con noi, e con il publican, fino all’ultimo secondo disponibile.
Poi il treno chiama, e la chiacchierata continua con il publican.
Impeccabile, ha una di quelle facce intagliate alla Clint Eastwood. Chiacchieriamo di Irlanda e di Dublino, ovviamente. Ci chiede perché siamo lì. Perché lì, lui, non se li aspetta i turisti. Ma chiacchieriamo di Banville, di Glen Hansard, di Brendan Gleeson, di Damien Dempsey: col cXo che siamo turisti…
Al pub non ci piove, e non s’invecchia. Ma abbiamo appuntamento con un amico in un altro pub, e così è il momento di andare. Il sigillo del publican vale la giornata:
we had a good conversation.
Meglio di una medaglia… Mi sento come se mi parlasse Gunny Highway dopo il battesimo del fuoco. Ma sono al pub, ed è parecchio meglio.
Scheggia numero 2: me & the old wan
Wan è la contrazione di woman in Dublinese. Me wan stava arrivando a Casa. Mancavano poche ore ormai. Mi sembrava bello accoglierla con un mazzo di fiori. A me che non sono esattamente il tipo da mazzo di fiori. Ma si sa: a Dublino non sono io. Sono il meglio di me.
I fiori si comprano sotto la Spire, alla bancarella. E devo portarmeli in albergo. Che poi è quella la parte che mi è sempre piaciuta poco: il trasporto.
Ma siamo a Dublino… C’è una signora, una old wan, come la definirebbe il marito, che mi vede e mi chiede se i fiori sono per lei.
No, they are for me woife. She’s back after three weeks.
Non è che me la sono preparata. M’è venuta spontanea. Tanto nella forma quanto nel contenuto. Tanto nell’interpretare l’arrivo come un ritorno a casa quanto nella pronuncia. Del resto, non è così che avevo presentato me woife, per l’appunto, a Roddy Doyle..?
Scheggia numero tre: nuove investigazioni sui grigi d’Irlanda
La parola ormai l’avete imparata anche voi, se bazzicate qua su Italish da un po’. Liath. Grigio. E me l’ero sempre contestualizzata, la parola, e questa “grigitas” che la sottende, come qualcosa dell’ovest e dell’interno. Qualcosa che sta sulle Aran quando fa buio alle tre, per intendersi.
Mi sbagliavo.
Anche a Dublino può spuntare il liath. E in piena estate. E non è niente di triste, e non è qualcosa di buio. Ho visto i colori che sparivano e rimaneva solo la luce, più o meno intensa. Ma era luce. E le ombre servivano soltanto a definirla meglio, quella luce, nella sua totale assenza di colore. Vedevi la Liffey trasfigurata nella bassa marea come se fosse metallo fuso, e il cielo aveva la stessa luminosità. E le mani, le teste le gambe le biciclette che attraversavano i ponti erano ombre del teatro cinese.
In questo cielo liquido lei stava arrivando. E tutto era perfetto.
Scheggia numero quattro: i sorrisi dublinesi sono gratis
A Melmopoli non mi succede mai. A Dublino sì. Merito di Dublino? Merito mio, che a Dublino sono “migliore”, e magari alla fine c’ho anche una faccia più simpatica? Fatto sta che i Dublinesi mi regalano spesso un sorriso gratis. Come se sapessimo che è un gran colpo di culo essere lì, e ce lo riconosciamo a vicenda.
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