Una delle più belle iniziative italiane sulla cultura irlandese è senza ombra di dubbio l’Irish Film Festa, di cui la nostra Camilla ci aveva raccontato la sesta edizione. È pertanto con grandissimo piacere che ospitiamo Susanna Pellis, il direttore di IFF, e la sua recensione di un film che qui a Italish amiamo tantissimo: In Bruges.
In Bruges – La coscienza dell’assassino
(In Bruges, Gb e Belgio 2007)
Regia e sceneggiatura: Martin McDonagh; direttore della fotografia: Eigil Bryld; montaggio: Jon Gregory; scenografie: Michael Carlin; costumi: Jany Temime; musiche: Carter Burwell; supervisore alle musiche: Karen Elliott; casting: Jina Jay; interpreti: Colin Farrell (Ray), Brendan Gleeson (Ken), Ralph Fiennes (Harry), Clémence Poésy (Chloë), Elizabeth Berrington (Natalie), Eric Godon (Yuri), Jordan Prentice (Jimmy), Jérémie Rénier (Erik), Thekla Reuten (Marie), Olivier Bonjour (regista cinematografico), Ciaran Hinds (sacerdote); produttori: Graham Broadbent, Pete Czernin; produttori esecutivi: Tessa Ross, Jeff Abberley, Julia Blackman; produttore responsabile: Ronaldo Vasconcellos; coproduttore: Sarah Harvey; produzione: Focus Features, Film4; distribuzione: Mikado; durata: 101’.
Nel folgorante Six Shooter, cortometraggio premio Oscar 2006 e sua prima regia, il commediografo anglo-irlandese Martin McDonagh aveva lasciato che i prati verdi dell’Irlanda sfilassero fuori dal finestrino di un treno per tutta la durata del film.
Qui, invece, le sue intenzioni parevano opposte: girare a fini cine-turistici, solo per il gusto di inquadrare le bellezze di Bruges.
Dove si trovano, in trasferta punitiva, i due sicari dublinesi Ken (Brendan Gleeson) e Ray (Colin Farrell), allontanati da Londra dal loro boss Harry (Ralph Fiennes) dopo un incarico portato troppo malamente a termine. All’inizio, a dire il vero, si teme di essere destinati a punizione pure da spettatori, di fronte a quello che sembra solo un tour promozionale della città fiamminga. Ma non servono che pochi minuti per accorgersi che c’è ben altro, nel film.
Mura medioevali, strade lastricate, chiese e musei, guglie e canali, una Bruges davvero incantevole. Eppure, più i due killer vi si addentrano, più la città si rabbuia e la vicenda – fra le inquietudini trasmesse dai quadri di Bosch e gli incontri ripetuti nel centro storico – prende la forma di una sofferenza mentale, di un percorso ossessivo. La macchina da presa monta quasi sempre il grandangolo, e anche questo fissa la cifra stilistica e psicologica del film: un mondo messo a fuoco come un incubo, distorto e claustrofobico, minaccioso e cupo. Si capisce presto che i protagonisti hanno, per motivi diversi, ben poco da guadagnare o da perdere; che i due assassini prezzolati e il loro spietato mandante covano voglie suicide nemmeno troppo latenti.
Ma se a questo punto si teme la deriva psicotica, ci si sbaglia di nuovo. Perché la genialità della sceneggiatura fonde i tormenti esistenziali con situazioni e dialoghi esilaranti; e perché il trio di interpreti rende perfetto questo equilibrio, che non poteva essere più rischioso.
In Bruges è uno dei più felici esempi del livello che raggiunge il cinema delle isole britanniche quando si lascia davvero arricchire dalla propria tradizione teatrale, e cerca l’incontro tra scrittura e visione attraverso un dialogo ininterrotto della regia con gli attori. In curiosa sovrapposizione con la storia che racconta, infatti, McDonagh si è portato in ritiro a Bruges per qualche settimana di prove i due interpreti irlandesi. È facile indovinare quanto corpo abbiano preso i due killer nel periodo che ha preceduto le riprese: Brendan Gleeson (senza dubbio l’attore più naturale al mondo) riaggancia il suo personaggio di Six Shooter, un vedovo di mezza età che nel cortometraggio falliva il suicidio; mentre le insofferenze verso il turismo culturale manifestate da Ray fanno sospettare il prestito autobiografico da parte di Colin Farrell (bravo come non mai, e totalmente in parte).
A storia inoltrata invece, il prepotente ingresso di Ralph Fiennes, che aggiunge una variante comica – finalmente – alla sua collezione di psicopatici: Amon Goeth, l’ufficiale nazista che sparava agli ebrei dal balcone in Schindler’s List (1993); Dolarhyde, il serial killer tatuato e dolente di Red Dragon (2002); il diafano Lord Voldemort, per due volte spaventoso antagonista di Harry Potter (2005 e 2007). Tutte figure che percepivano e pativano la propria follia, e che abbiamo visto soccombere con diversi rimpianti. Non fa eccezione, pur muovendosi su un piano quasi fumettistico, il boss londinese di In Bruges.
Dissociato, paranoico, ma in fondo rigoroso e – a suo modo – leale. Interpretazione anche molto fisica, e come sempre sbalorditiva.
Film loquace e sboccato, impietoso pure con le categorie protette (nani, neri, gay, obesi, registi d’essai), dinamicissimo. Succede di tutto, si spara con armi di ogni calibro, si attraversa un altro set, ci sono cambi repentini di ritmo e di tono: in un inseguimento decisivo fra i canali, In Bruges si trasforma improvvisamente in un action movie americano (ma trattandosi di film europeo, si corre a piedi: scompostamente, se si è irlandesi; diritti come un fuso, per così dire “all’inglese”, se si arriva da Londra).
Dal cinema di genere, e dalla pittura di Bosch, McDonagh mutua anche il tocco sanguinolento, il suo è un black humor rosso-sangue che mescola la tradizione british con il pulp. Una scarica di vitalità e di morte, una specie di Tarantino celtico precipitato (letteralmente, vedrete) nel cupio dissolvi.
Uno che, solo perché tempo addietro gli era piaciuta Bruges, confeziona un’opera prima così piena di idee che ad altri sarebbero bastate per tutta la carriera. Davvero da non perdere.
Susanna Pellis, 13/05/2008
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