Anche Laura Schiavini fa parte della famiglia di ItalishMagazine fin dagli inizi. E anche Laura ha deciso di partecipare alla festa per il restyling di Italish: regalandoci, dopo quello di Natale, un altro titolo va aggiungersi alla nostra collezione di racconti irlandesi!
After all, why not? Un racconto irlandese di Di Laura Schiavini
«Hobby?»
L’intervistatore, un uomo sulla quarantina con la testa rasata e gli occhiali arancione, sembra piuttosto annoiato dal colloquio. Ho abbastanza esperienza per capire che anche stavolta non otterrò il lavoro. Comunque, anche se sono sicura che non gliene frega niente dei miei hobby, rispondo: «io canto».
Mi rivolge uno sguardo compassionevole. «Come in quella trasmissione televisiva?»
Non guardo i talent show, ma mi pare di ricordare che quello a cui si riferisce fosse un programma di bambini canterini. Ho passato da un pezzo l’età di quei bambini, quindi replico un secco no, che non lascia possibilità a ulteriori domande.
Non ha alcun senso dargli spiegazioni, tanto non capirebbe.
«Le faremo sapere», conclude alzandosi in piedi e porgendomi la mano.
Come no! Penso mentre esco dall’ufficio e m’infilo nell’ascensore. Pare che il mondo del lavoro sia invaso da laureati in informatica, specie uomini. E che le donne non siano molto quotate in questo campo. Pregiudizio da terzo millennio che si è sostituito a quello della donna al volante. Almeno in Italia.
Continua a leggere il racconto qua sotto oppure, se preferisci, scaricalo!
Sono venuta in città appositamente per questo colloquio, e dato che sono appena le undici del mattino, tanto vale che me la prenda comoda.
Mi inoltro verso il centro quando sento una musica in lontananza. Seguo la scia come se fosse una sorta di Flauto magico finché non mi trovo davanti a una ragazza che canta, accompagnandosi con la chitarra acustica. Ha una bella voce, ruvida e potente. Sta eseguendo una canzone che non conosco, probabilmente un pezzo suo. Le sorrido con complicità, ma lei non mi ricambia. È assorta nella sua perfomance, ma potrebbe anche darsi che sia, semplicemente, indurita dalla strada e da un mestiere, se così si può definire, che è un ripiego e non una scelta.
In effetti, sembra più una senza tetto che una musicista di strada. Nella custodia della chitarra ci sono solo poche monetine e i passanti le sfilano davanti senza notarla. Come se fosse invisibile o, peggio, uno dei tanti scocciatori che chiedono la carità. Magari fra poco arriverà un vigile urbano che le chiederà di spostarsi. A meno che non abbia l’autorizzazione, che, a quanto ne so, non viene concessa facilmente. E in ogni caso mi pare che in questa via non sia contemplata.
Il paragone è d’obbligo con un’altra strada e un altro paese. A Dublino, Irlanda, essere artisti di strada è un merito oltre ad essere molto cool! L’ho visto con i miei occhi, un paio di anni fa in Grafton Street. Cantanti strepitosi ed entusiasti che strappavano applausi a dublinesi sinceramente interessati e coinvolti. A esibirsi non erano solo musicisti ma artisti di ogni genere: dai mangiatori di fuoco ai giocolieri, per finire con un contorsionista a cui un boa constrictor avrebbe fatto una pippa.
Ricordo di aver pensato che in quella città e in quell’isola l’arte è davvero patrimonio di tutti, un pensiero libero di circolare e tramutarsi in magia grazie alla grande sensibilità e apertura mentale dei suoi abitanti. In altre parole il cielo d’Irlanda che sparge incanto su una terra baciata dagli dei della fertilità.
Il richiamo è molto forte in questo momento, per me. Senza lavoro e prospettive. Ma con un gruzzoletto da parte che mi consente di sopravvivere per un anno. È l’eredità che mi ha lasciato mio padre. Nonostante non si aspettasse di passare a miglior vita a soli cinquant’anni, è sempre stato un uomo oculato. Quanto a mia madre, è morta che avevo solo dieci anni, che Dio la benedica!
«Potrei scrivere a padre Malone e chiedergli di ospitarti in qualche convento», mi suggerisce padre Martino, quando gli comunico il mio progetto di trasferirmi per un anno a Dublino e suonare in Grafton Street. Io, la mia chitarra e la mia musica. È da un po’ che ci penso, e ora è arrivato il momento. Non ho niente da perdere, a parte il rimpianto di non aver avuto il coraggio di inseguire un sogno.
«No, grazie, non offenderti, ma preferisco alloggiare in un ostello».
«Capisco», risponde lui che, invece, si è offeso.
Non sono una brava cattolica, solo una che, vivendo in un piccolo paese della bassa friulana, frequenta la chiesa più per affetto verso padre Martino che per fede. È stato quest’ultimo a scoprire il mio talento e la mia voce, quando andavo a lezioni di catechismo per la prima comunione. All’inizio mi faceva cantare i soliti inni; poi, avendo introdotto la messa beat, qualche brano composto da lui. Che, a dirla tutta, faceva venire i vermi.
A quattordici anni glielo dissi fuori dai denti, e lui, anziché arrabbiarsi mi propose di cantare, per Pasqua, alcune canzoni tratte da Jesus Christ Superstar, l’opera rock.
Fu un successone, non tanto fra i parrocchiani di una certa età, quanto fra i pochi ragazzi che frequentavano ancora la chiesa. Pare che le mie performance e il passa parola che ne è seguito abbiano fidelizzato nuovi giovani adepti, cosa di cui mi sarà sempre grato.
Padre Martino tenta di dissuadermi, lusingandomi con delle prospettive di lavoro all’Ikea, dato che conosce qualcuno che potrebbe aiutarmi a ottenere un impiego come cassiera o impiegata nell’amministrazione.
«L’Ikea è dall’altra parte dell’autostrada….», gli faccio presente. «Io non mi sono mai mossa da qui, tranne che per un week end a Dublino e per le selezioni di X Factor».
A Bologna, capirai!
Un incubo che preferisco dimenticare, non so che cosa mi passasse per la testa in quel periodo. Ma tutti non facevano che ripetermi quanto fossi brava, e quanto interessante fosse la mia musica. Persino uno dei chitarristi di Elisa, che abita di fronte a me. Aveva partecipato a una festa in cui ero stata invitata a esibirmi e, dopo avermi sentita, mi aveva riempito la schiena di pacche affettuose consigliandomi di partecipare al talent show. Proprio in quel periodo stavano facendo le audizioni.
Così avevo preso il treno per Bologna. Quando avevo visto le migliaia di persone che si accalcavano davanti a Torre Unipol, avevo pensato di andarmene. Ma poi ero rimasta, passando la prima selezione. Alla seconda, un tipo arrogante mi aveva detto che, sì, la mia musica era interessante, ma che, secondo lui, non avevo presenza scenica né carisma, che avrei dovuto lavorare molto su me stessa. Tradotto: non ero abbastanza sexy.
E allora sì, che me n’ero andata!
Comunque padre Martino, essendo uno che in fatto di perdono non è secondo a nessuno, mi dà la sua benedizione e mi accompagna persino a Ronchi, dove salirò su un aereo della RyanAir che fa scalo a Stansted. Da lì mi imbarcherò per Dublino.
Mentre aspetto il volo, mi bombarda di raccomandazioni, come un papà apprensivo. Se si esclude qualche lontano parente, sono sola al mondo ed è rassicurante avere una persona come lui su cui contare.
Molly Malone e io siamo diventate amiche. Passo a salutarla ogni mattina, quando, con la chitarra a tracolla, lascio il B&B dove alloggio per recarmi in Grafton Street. Grazie alla dritta di Jan, mio compagno di viaggio nella breve rotta fra Stansted e Dublino, mi sono sistemata alla grande. Il prezzo è conveniente, le stanze sono graziose e pulite e Imelda, la proprietaria, una signora sulla cinquantina, è gentile e affettuosa come una zia.
Non piove da tre giorni, ossia da quando, dopo una trafila piuttosto semplice, ho preso posto nella postazione affidatami dal Comune.
L’assenza di pioggia è di buon auspicio, specie in un sabato mattina, quando la gente non lavora e quindi si dedica allo shopping e alle passeggiate. Tolgo la chitarra dalla custodia, la accordo e comincio a suonare. Il cielo è di un blu profondo attraversato da qualche nuvola bianca, l’aria è frizzante e mi sento un tutt’uno con la mia musica. Rigorosamente soul e ovviamente in inglese.
Musica dell’anima, l’unica, per me, che valga la pena di sentire e comporre. Mio padre me l’ha fatta ascoltare sin da quando ero piccolissima, al posto della ninna nanna. Otis Redding, Aretha Franklin, Van Morrison e poi I Commitments, il film che ho visto, tipo dieci volte. Peccato che papà non abbia potuto sentire Hozier, gli sarebbe piaciuto.
In verità me la cavo meglio scrivendo i testi che parlando, ma sono sicura che vivendo qui farò molti progressi.
I primi passanti si fermano, e ascoltano. Nei loro occhi leggo curiosità e interesse. Sono giovani alla moda, alcuni ostentano tatuaggi e piercing, altri indossano semplici jeans e maglietta benché non faccia caldo, altri ancora portano capi firmati. In breve un capannello di gente si raduna intorno a me. Non è la prima volta, diciamo che succede ogni giorno, ma mi emoziona sempre.
Alla fine della canzone scroscia un applauso, piovono monete e anche banconote. Persino una da venti euro gettata da un signore elegante di mezza età!
«Bello quel pezzo, è tuo?». Si complimenta un ragazzino, avrà sì e no quindici anni.
«Grazie, sì», rispondo sorridendo, col cuore che mi batte forte. Essere qui, nella strada che è l’anima di questa città, a condividere la mia musica con persone che mi rispettano e la comprendono, è eccitante e stimolante.
Al punto che l’ispirazione fluisce, le dita strappano nuovi accordi e le labbra mormorano parole piene di poesia.
Cavolo! Non sapevo di poter improvvisare così.
Altri passanti si stanno fermando, qualcuno segna il ritmo con le mani, qualcun altro con il piede. E io canto e suono come non ho mai fatto, ispirata dall’atmosfera e dall’energia che queste persone mi rimandano.
Qui tutto è possibile, considero, anche che Bono capiti in Grafton Street e, come ha fatto altre volte, si unisca a me. Ma senza scomodare i miti, sarebbe straordinario poter cantare e suonare con Glen Hansard o con Hozier. O con qualsiasi musicista che ami il soul quanto lo amo io. E non è detto che non possa accadere.
Il vecchio quanto abusato sogno di essere ingaggiata da un’importante casa discografica o notata da un grosso manager sbiadisce di fronte a questa esperienza, dove non contano i click su ITunes, i tweet o i like sulla mia pagina, ma il cuore e l’anima della musica e di questa gente.
Se solo padre Martino fosse qui! Sono sicura che ne resterebbe incantato. Stasera, come ogni sera da quando sono arrivata, gli scriverò una e-mail per raccontargli ogni cosa, anche se non sarà facile esprimere a parole le mie emozioni. Ma sono sicura che prima o poi lo convincerò a venirmi a trovare.
È stata una giornata proficua e straordinaria, sotto tutti gli aspetti. Sono le sette di sera quando mi allontano da Grafton Street per tornare nel B&B. Benché abbia passato molte ore in piedi, a suonare, mi sento leggera, quasi priva di forza di gravità.
Saluto Molly Malone che, illuminata dalla luce calda del tramonto, è meno imbronciata del solito.
Succede così, quando si è felici! Ogni cosa intorno a noi riflette il nostro stato d’animo.
La consapevolezza di aver realizzato un sogno mi fa sperare, dopo tanto tempo, nel futuro. Imelda, ieri sera, mi accennava che a Dublino ci sono molte aziende di informatica dove potrei inviare il mio curriculum. E dove, a quanto pare, non fanno distinzioni di sesso.
Ci proverò, sarebbe forte trovare lavoro qui per cinque giorni alla settimana e negli altri due suonare in Grafton Street.
After all, why not?
Immagine: irelandscontentpool, Copyright © DUBLIN REGIONAL TOURISM