Una trentina di giorni diluiti in quattro tempi. E all’asciutto da due anni e un mese. Quel che resta, sono ricordi. E ricordi di ricordi: me che scrivo di Irlanda, sul treno, la sera tardi, tra Firenze e Livorno, tre mesi dopo la prima volta. Senza neanche poter dire che tornavi a casa, in quel periodo. E senza neanche poter dire che era la prima e unica volta che eri “senza casa”.
La prima volta che ho visto le Isole Aran le ho viste da lontano, nel 1999.
Ricordo perfettamente l’immagine di una lunga tartaruga che abbacinava davanti al sole dei pomeriggi lunghissimi d’estate, dalla costa a nord di Galway.
Ricordo di aver continuato a ricordarmi quella immagine fino a quando non ho “stabilito il contatto”.
Fino a quando non ho messo i piedi, su Aran. Adesso ho tantissime fotografie e una scatola di vetro in cui ci sono le mie Aran. Con il pezzo di roccia che tenevo nello stipetto all’Orrore.
La ragazza che vendeva souvenir alle scogliere di Moher.
Non mi ricordo come fosse, ricordo che era bellissima e con i capelli rossi da Elfo, una cascata di capelli rossi che sembravano un pezzo di sole.
Se ne stava nascosta in quella specie di utilitaria trasformata in banchetto-mobile, e magari ci odiava tutti.
Ma era bellissima ed era l’Irlanda.
Le due signore sul treno Galway-Dublino, la seconda o terza volta (vedi? Già è difficile ricordare) che offrivano riviste e roba da mangiare e ci dicevano che c’era una partita di hurling importante,a Dublino, e io, fiero, dicevo che lo sapevo, che c’era la partita al Croke Park, era una semifinale.