Piccoli momenti di felicità – Francesco Scarrone. Letto da Lorenzo Bartoli.
Oggi Bob arriva si siede e mi mette davanti una tazza di tè. Lyons. Lo conosco. Quando mi porta il Lyons è perché ha voglia di parlare. Non lo sopporto quando si sente socievole e aperto verso il mondo. Che poi, mondo: siamo io e lui. Sai che gioia. Ma insomma, mi piazza il tè davanti mentre la nuvola di latte si allarga dalle profondità brumose della tazza, e mi fissa. Lo vedo che vuole parlare. Gli scappano le parole da tutte le parti e non sa come tenersele dentro.
“Mi sa che ne avremo per un pezzo…” mi dice scaldandosi le mani col tè.
Niente da dire. Gran conversatore, Bob.
Sposto lo sguardo da lui alla tazza, dalla tazza a lui, poi ancora da lui alla tazza, poi sospiro e alla fine glielo chiedo: “Volevi dirmi qualcosa, Bob?”
Mai vista una persona più contenta di parlare. Gli si è illuminata la faccia. Sorride un po’ impacciato e poi mi dice: “Ma senti, è un po’ che te lo volevo chiedere. Pensavo, ma davvero non ti manca niente?”
E’ una domanda strana fatta da lui che potrebbe vivere come un monaco cistercense.
“Di cosa stai parlando, Bob?”
“Della vita fuori. Della normalità. Non ti manca niente? Io penso di diventare pazzo qui dentro!”
“Bob, a parte il fatto che tu sei già pazzo. O comunque non sano. Almeno per gli standard sociali comuni. Ma poi sappi che questa è la mia normalità.”
“Andiamo Ted, hai capito cosa voglio dire.”
“Vuoi dire la torta di mirtilli della nonna e quelle cose lì?”
“Voglio dire i piccoli momenti di scontata felicità. Le cose normali che di solito facciamo e che solo in queste situazioni ci rendiamo conto di quanto siano importanti.”
“Hai cominciato a lavorare per un istituto di ricerche sociologiche e non me l’hai detto?”
“Ah, Cristo Ted! Con te non si può mai parlare! Mai una volta, voglio dire, mai una, che quando ti chiedo una cosa tu…”. E poi si alza e fa per andarsene: “Se penso che dovrò stare chissà quanto chiuso in questa stanza qui con te!” e si gira. E’ una finta, lo so. Ma è anche un gioco. Un balletto che tutti e due sappiamo condurre. Lui fa la sua mossa, io la mia, e andiamo avanti così per un po’. Un modo come un altro per vivere. Allora gli dico: “Va bene. Va bene, Bob. Aspetta. Dai. Stai giù, stai seduto e parliamo.”
“Sei un emerito cazzone!”
“Ho detto che ti rispondo, dai.”
“Oh, certo. Il Signore mi fa la grazia di rispondermi.”
“Senti, se vuoi che ti risponda metti giù il culo, altrimenti puoi tornartene nel regno delle ombre da cui sei uscito.”
Allora Bob si risiede, ma vedo che non si fida. Aspetta che da un momento all’altro mi rimetta a prenderlo per il culo. Devo dire che la tentazione è forte. Bisogna pur farlo passare, questo mese. Questa vita. Però poi so che non me la perdonerebbe. Lo conosco, il vecchio Bob. Per certe cose è ancora un dannato sentimentale. E ogni tanto bisogna dargli un contentino ai sentimentali anche perché sono loro che cucinano. Allora ci penso un po’ su, e poi alla fine lo dico.
“La birra.”
“Cosa?”
“La cosa che mi manca. La birra. O meglio, non proprio la birra. Quella me la posso fare anche a casa. A me manca il rituale della birra. Sai cosa voglio dire. Mi manca la ricerca del pub. Evitare quelli pieni di turisti e di fighetti, degli impiegati usciti dagli uffici, quelli di Dame Street pieni di giovani avvocati in carriera con le loro cravatte allentate dopo una settimana di duro lavoro. Che poi, scusami, ma quelli la vita dura non sanno cos’è. Te lo assicuro, Bob, che il mestiere di vivere è più duro per noi che per loro. Ma lasciamo perdere. La ricerca del pub, dicevo. Quello giusto. Dove ci sia un po’ di movimento ma non troppo. Uno defilato. Magari a un’ora inusuale, le quattro del pomeriggio, per esempio. Appena uscito dall’Abbey Theatre dove sei andato a vedere la pomeridiana. Ecco. Appena uscito dalla pomeridiana all’Abbey. Da O’Donoghues, per esempio. Che è vicino a Steven’s Green ma un po’ scostato. Alle quattro del pomeriggio. Quando si caricano i fusti e i baristi stanno preparando il locale per la sera e ti servono con la mano sinistra, come si suol dire. E mentre spostano uno sgabello ti dicono: Che ti do ragazzo? E tu rispondi: Una pinta. E loro, seri- perché sono sempre seri i baristi alle quattro del pomeriggio- loro si attaccano allo spillatore e ti riempono metà bicchiere e lo lasciano lì a riposare. E lo sai che ti dico? E’ una cosa che mi piace. C’è qualcosa di contadino, in quel gesto; di stalla, di mammella di vacca. E poi l’attesa. E’ come tempo sottratto alla vita di fuori. Al traffico, alle macchine, alle biciclette, alle frenate dei tassisti. Appartiene a un altro mondo, quell’attesa, giuro. E tu devi avere tutto il tempo del creato dalla tua parte per aspettare così. Quando Dio ha fatto il tempo ne ha fatto abbastanza. E intanto tu te ne stai lì. Aspetti come se le ore non avessero importanza. E vedi il colore rubino della Guinness attraversato da onde velate che salgono verso la superficie. Poi il barista ti prende il bicchiere e ricomincia a spillare con un mezzo sorriso. Sai quel sorriso che fanno i baristi mentre spillano? Che è come se pensassero a cosa gli ha detto una ragazza bionda, nuda e coperta appena da un lenzuolo leggero, al mattino prima di alzarsi. E mentre sorride, come se non credesse ancora a quel che gli ha detto la ragazza, ti spilla il resto della pinta e la appoggia sul bancone dicendoti Salute, senza guardarti, e poi si gira e mette la banconota in cassa e si allontana. Ma il tuo rituale non è ancora finito. Perché il tuo destino è di aspettare di nuovo. Mentre si crea la spessa schiuma bianca in cima al bicchiere. Tu aspetti di nuovo. E quella seconda attesa è il tempo della meditazione. Quando riorganizzi i pensieri della giornata. Tutti i problemi della tua esistenza si condensano in quella schiuma. E non c’è niente nella tua vita che non venga a galla finendo lì dentro. Moglie, divorzio, lavoro, soldi, malattia. Ed è una schiuma solida e delicata. Perché così sono i problemi. Solidi e delicati. Bisogna maneggiarli con cura. E quando sono tutti lì che te li vedi davanti, che quella schiuma è diventata compatta e che la tua pinta ha assunto un colore che è quasi nero ma non lo è, allora prendi il bicchiere e quei problemi scompaiono tutti nel primo sorso. Il primo sorso di Guinness. La bocca affonda nella schiuma fino a raggiungere il liquido scuro e le labbra si bagnano appena; allora decidi di alzare il braccio di un angolo infinitesimale e la birra scivola, sotto la schiuma, e ti invade la bocca. Fresca, quasi fredda, con quel vago sentore di liquirizia; e delle bollicine appena segnate che ti ingannano promettendo e non mantenendo. La pinta si beve in tre lunghe sorsate. L’ultima è tristezza e senso di colpa. La seconda è la maturità piena e vigorosa di un giorno d’agosto nei campi di Provenza. Ma la prima. Oh, la prima, Bob, la prima è la maledetta Primavera di Vivaldi che ti danza nella bocca. Ti spuntano fiori tra i capelli, ti vengono gambe da satiro e vai in giro a zuffolare sul flauto di Pan la gaia allegrezza della vita.
Quindi ecco, se mi chiedi che cosa mi manca della vita là fuori, Bob. Io te lo dico chiaro e tondo senza pensarci un attimo. Mi manca farmi una pinta da O’Donoghues, alle quattro di un soleggiato sabato pomeriggio di Pasqua, mentre fuori il mondo si affanna.”
Bob non parla. Non risponde più. Ha chiuso quella sua boccaccia e mi guarda stupito. Non credeva che anche io avessi un’anima. Che anche io provassi sentimenti. Che anche a me mancasse qualcosa, come il suono che fanno i tacchi delle ragazze che camminano veloci sulle loro gonne leggere. Lui non ci credeva. Infatti lo dice: “Non ci posso credere…” mi dice.
Io lo guardo soddisfatto. Ho vinto. Uno a zero per me. Palla al centro. “Che c’è? A cosa non puoi credere, Bob?”
L’ho emozionato. Lo conosco. Ho toccato una di quelle rare corde dell’emozione a cui non sa resistere. Ha gli occhi che luccicano. Mi fa tenerezza. In questo momento, più che mai, sento di volergli bene e che lui ne vuole a me. Come un padre e un figlio. O una cosa del genere. Così aspetto che vada avanti, che lui me lo dica. Che mi dica quanto mi ammiri. Che mi dica che sono come un figlio per lui.
Mi guarda, apre la bocca e lo dice: “Che coglione! Ci hai veramente creduto! Non ci posso credere: mi hai risposto davvero!”
E ride come un pazzo. Ha le lacrime agli occhi. Ma come? Ma se gli ho servito poesia su di un piatto d’argento. E non roba in rima, ma poesia vera, voglio dire. Poesia della vita. E lui tra la luna e il dito guarda il dito.
Continua a sghignazzare: “Sei davvero un imbecille! Ma come hai fato a cascarci?”
“Aaah, diavolo, Bob! Ma perché non vai a farti un giro?”
Lui d’improvviso smette di ridere, si fa serio, si china su di me prendendo la tazza che non ho nemmeno toccato e dice: “Non posso. Siamo confinati.” Poi sorridendo: “La vuoi un’altra tazza di Lyons?”
Secondo me lo fa apposta.
“Sarà una lunghissima quarantena,” gli dico.
“Non ti preoccupare. Ci sono qui io,” risponde andando in cucina. Poi lo sento che parla ancora da solo: “Che coglione, mi ha davvero risposto! Non ci posso credere!”
Ha ragione Bob. Sono un coglione.
Ma ormai è tardi per cambiare.
E mentre un sole foresto di primavera entra dalla finestra aperta e rinfresca la stanza, io guardo le strade, spoglie, deserte. Senza un rumore, se non quello dei fiori che gemmano sugli alberi e le foglie che spingono per conquistarsi il diritto alla vita.