Harvard, il M.I.T., Princeton, Stanford e Yale: migliaia di film americani ci hanno insegnato che la chiave del successo sta nel “passare” da una di queste istituzioni. Vale anche per l’universo dei social network?
Non è più così. O meglio: non è semplicemente così.
Da queste istituzioni non passa più soltanto il successo, l’affermazione personale. Da queste istituzioni passa anche il futuro: perché, magari forzando appena un po’, possiamo dire che Google è nato a Stanford, Facebook è nato a Harvard, Amazon è nato a Princeton.
Ma se Larry Page e Sergey Brin, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos sono i “fenomeni” che ci hanno rivoluzionato la vita, c’è un signore che, nel suo campo, era un fenomeno tanto quanto.
Richard Rorty e il social networking..?
Studente a Yale, professore sia a Princeton sia a Stanford, questo signore era il filosofo Richard Rorty. È morto nel 2007: avrebbe avuto il tempo per tirare le orecchie al giovane Mark nei corridoi…
Ma che c’entra un filosofo?
Richard Rorty è stato il più importante esponente del Pragmatismo Americano, o Neopragmatismo: una corrente di pensiero che ha rappresentato la pietra tombale definitiva posta sui grandi sistemi filosofici nati tra Seicento e Ottocento, tutti intenzionati a “dare senso” all’esistenza, a tutto ciò che esiste (forse…) fuori di noi.
Sistemi fondati sulla dualità tra mente e materia, dualità che per Rorty non esiste, in quanto risolta nel linguaggio.
In Persons Without Mind, secondo capitolo di Philosophy and the Mirror of Nature (testo del 1979, ripubblicato con nuovi materiali nel 2009, due anni dopo la morte di Rorty), Rorty parte da un paradosso esemplare: suppone l’esistenza di un pianeta abitato da esseri sostanzialmente uguali a noi, ma con una civiltà in cui le discipline che hanno da sempre avuto più importanza non sono state la filosofia o la religione, bensì la neurologia e la biochimica.
Per questo motivo il loro linguaggio si è sviluppato in modo completamente diverso dal nostro: su quel pianeta una mamma non dirà al figlio di stare lontano dal forno “perché brucia”, ma perché “sovrastimola le terminazioni sensoriali”.
Con questo gioco Rorty prende due piccioni con una fava: vuole dimostrare che la conoscenza non è altro che linguaggio, e che la conoscenza e le terminazioni nervose non sono una dualità.
Con questo, però, Rorty non voleva dire che siamo soltanto dei “robot in carne e ossa”: la garanzia di individualità di ognuno di noi risiede
Nella nostra abilità poetica di dire cose uniche e oscure, non nella nostra abilità di dire cose ovvie soltanto a noi stessi.
Lo scopo della filosofia di Rorty era chiaro e dichiarato: depotenziando il valore di presunte conoscenze oggettive, assolute, e spostandone il potenziale sul linguaggio, si aprono spazi etici contro tutte le tipologie di razzismo, visto che appunto tutte le tipologie di razzismo condividono il voler definire in maniera “scientifica” il confine tra “noi” e “loro”, quando invece tale confine è non scientifico, posto soltanto dal linguaggio.
Il Passato dei Social network?
È questa l’aria che si respirava nei dipartimenti di filosofia e di linguistica nelle università in cui stavano nascendo i social network, i quali dalla loro stessa definizione partono dal concetto, appunto, di “rete sociale”, concetto che aveva cominciato a presentarsi nelle università americane già dagli anni ’50.
Facebook & Co., “sapendolo o no”, da un lato sono imbevuti delle problematiche della filosofia neopragmatica e, ovviamente, delle teorie sociologiche sul concetto di social network; dall’altro costituiscono un nuovo oggetto per l’analisi filosofica e sociologica in quanto modalità e contesto di espressione completamente nuovi.
La Terra, prima di Zuckerberg
La rete, e i social network in particolare, costituiscono una nuova sfida all’analisi delle relazioni umane: è come se, oltre alla Terra “come era prima di Zuckerberg” e al pianeta immaginato da Rorty si fosse aggiunto un terzo pianeta: la Terra “dopo Zuckerberg” (e Page e Brin e Bezos…) in cui il problema tra mente e natura, tra “noi” e “tutto ciò che è diverso da noi” è accantonato e il linguaggio è (sta diventando) diverso sia da quello parlato sulla “vecchia” Terra sia da quello parlato sullo strano pianeta di Rorty.
Se il titolo Persons without Minds voleva essere provocatorio, probabilmente se Rorty scrivesse oggi titolerebbe Persons without Smartphones, cominciando a interrogarsi su quali sono le caratteristiche di un modo di comunicare in cui le parole:
non c’è comunicazione senza connessione
hanno eseguito un salto mortale in avanti: perché se questo assunto è vero nella “teoria dei social network”, come per esempio organizzata da Harrison White, ormai è altrettanto vero da un punto di vista tecnologico, di accessibilità al mezzo.
Se Rorty già si preoccupava di che cosa ci rende unici al di là dei processi neurali — comuni — che “fanno” il linguaggio, forse ora dovremmo preoccuparci “della nostra abilità di dire cose ovvie a tutti (con un aggiornamento di stato…)”.
Scheletri, armadi, strutture
Dicevamo che “non c’è comunicazione senza connessione”, parafrasando White, il sociologo dei social network (come concetto, non come Facebook & Co.).
Per White i mercati sono di per sé un aspetto della teoria dei social network. La declinazione in chiave economica degli studi di White è stata seguita, tra gli altri, da Joel M. Podolny, sociologo a Yale.
Nel 2009 Podolny è diventato Senior Vice President of Human Resources di Apple e Decano della Apple University.
Ricordate Zuckerberg in giro per i corridoi di Harvard, all’inizio del post? Nel 2005 ha ufficialmente abbandonato gli studi (aveva cose decisamente più importanti da fare…).
Come dire: c’è un filo che collega i social network che stiamo utilizzando alla grande tradizione culturale statunitense (una tradizione, certo, differente da quella europea) e quel filo, quel sentiero di briciole, ci stanno dicendo che i social network, come fenomeno culturale, sono molto di più che foto di gattini e insulti politici.
Sono un nuovo modo di leggere la realtà.
Anche se la realtà non esiste, se non quando la raccontiamo, magari a colpi di “status update”…
Quel filo, quel sentiero di briciole, ci sta conducendo in un territorio molto ricco e affascinante.
I social network, come ogni fenomeno complesso, hanno due livelli di interpretazione: uno per così dire logico, in cui affrontiamo il sistema “alla pari”; l’altro, invece, “metalogico”, in cui ci chiediamo il perché della logica di quel sistema, compiendo appunto un “salto di logica” che fa crescere esponenzialmente il livello di discussione (come dire: il livello metalogico è un livello logico elevato al quadrato, è l’analisi dell’analisi).
Una serie di condizioni oggettive che sono parte del fenomeno stesso (essere post-moderno, post-neopragmatista, essere “nato” statunitense, avere bisogno per esistere di una struttura tecnologica che è anche una struttura logica) rendono i social network il “sistema” di comunicazione più complesso mai esistito.
Nessuno mai, prima, ha potuto comunicare così tanto così facilmente.
E questo è il motivo per cui i social network hanno bisogno di una analisi filosofica: come dice Rorty la filosofia è sempre stata a “rincorrere” i fenomeni generati dall’uomo (la filosofia somiglia molto, da questa prospettiva, all’esperienza: quella cosa che quando ti serve non ce l’hai e quando ce l’hai non ti serve più…), ma i social network, che sono nati dopo che la filosofia e la storia delle idee hanno imparato un bel po’ di cose dai propri errori, e sono per definizione “comunicazione facile”, sono anche il primo fenomeno a poter essere gestito nel suo farsi.
Perché il fenomeno dei social network ha bisogno di un approccio teorico, di una analisi, “indipendenti”?
Proprio perché gli attori principali del fenomeno lo stanno sì affrontando anche a livello metalogico (i progetti “accademici” di Google e Facebook sono metaloghi) ma, proprio perché sono gli attori del fenomeno, non possono (non dovrebbero?) essere anche gli attori della critica, del racconto, del fenomeno stesso.
Perché, invece di critica, di metalogo, questa “cosa” somiglia di più a quella che in un altro post avevo definito “occupazione dell’esistente”.
Se credete, da operatori del web, che la “cosa” che sta accadendo non faccia parte del vostro lavoro, non lo riguardi, sbagliereste.
Stiamo lavorando in un campo logico di cui la narrazione, il metalogo, non sono una storia nata dal basso, ma una struttura predeterminata.
Un esempio? Il concetto di SEO.
Non fosse altro per il fatto che, invece di SEO, dovremmo forse parlare di GEO, nel senso di Google Engine Optimization. Il livello metalogico del web è, di fatto, una rete di parametri determinati da uno degli attori.
Quello che mi chiedo quindi è: c’è la condizione di “analizzare la comunicazione web” quando la grammatica dell’analisi è imposta?
Come e quanto le condizioni imposte da questa grammatica incidono sulle nostre scelte operative in termini di design e contenuti?
C’è bisogno di una analisi critica dell’interazione tra social network e grammatica di analisi del web?