E così sembra essere scoppiato un putiferio sull’inchiesta giornalistica dedicata alla scoperta di chi è (chi sarebbe) il vero nome che si nasconde (nascondeva?) dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante.
Premetto che non ho letto i libri della Ferrante (anche se sono piaciuti a persone del cui gusto mi fido), ma questo “caso” mi interessa molto rispetto al fatto che la questione di nomi e pseudonimi è per me importantissima.
Non entro nel merito delle polemiche successive all’inchiesta.
Ma entro, questo sì, nel merito dei “diritti” e dei “doveri” di uno scrittore che utilizza uno pseudonimo.
Ognuno ha le sue motivazioni; la penna, la mano dietro il nome (il marchio?) Elena Ferrante hanno sicuramente fior di argomentazioni sul perché dell’uso dello pseudonimo e dell’identità segreta.
Come muore uno pseudonimo
Ma la prima cosa che mi è venuta in mente quando sui social è cominciato il polverone sul chi ha scoperto Elena Ferrante, è un caso quasi esattamente speculare.
Quello di John Banville, un autore di cui qui su ItalishMagazine abbiamo parlato molto (e in genere molto bene, ma questa è un’altra storia) che scrive i thriller sotto lo pseudonimo – comunque noto a tutti – di Benjamin Black.
Vabbè, in un caso, magari, forse, ha un po’ esagerato: per The Black-Eyed Blonde John Banville scriveva come Benjamin Black che scriveva come Raymond Chandler…
Ebbene, in Italia la personalità dello scrittore di thriller è stata, è proprio il caso di dire, assassinata.
È il marketing, bellezza!
Perché andare a confondere le menti di lettori pigri, che dovrebbero impegnare qualche altro neurone a imparare il nome di un altro autore, per poi leggere i libri scritti dallo stesso autore?
Il marketing ha sempre ragione, chi siamo noi per giudicarlo o biasimarlo.
Ma.
Ma c’è un ma.
Come nasce uno pseudonimo
Io so per certo che quando Banville scrive indossando la maschera di Benjamin Black è un altro scrittore.
E lo so perché (e con questo ben lungi da me il paragonarmi a uno dei più importanti scrittori viventi, non solo per l’Irlanda ma per il pianeta: non sono pazzo!) quando scrivo, chi scrive non è la stessa persona che lavora, mangia, dorme nel resto della mia vita.
Quello che prende la carta e la penna e, da lì, abbozza un romanzo, è un’altra persona.
È altrettanto vero, nel mio modestissimo caso, che in qualche modo il simbionte che porta in giro la personalità di scrittore è dovuta morire per lasciare spazio appunto allo scrittore.
E su questo mi fermo: no spoiler, come si dice, visto che una parte de Il Giorno Che Incontrammo Roddy Doyle, il libro che – spero – leggerete in molti, è ispirata a vicende autobiografiche (già: ma la vita di chi, a questo punto..?).
È altrettanto vero, nel mio caso, che la scelta dello pseudonimo, di questo pseudonimo, è stata una asserzione, un grido di appartenenza.
Di appartenenza al Paese che amo e di cui scrivo: l’Irlanda.
Perché, e questa è un’altra cosa che il caso Elena Ferrante mi ha fatto tornare in mente, quando il 14 aprile 2014 ero nell’ufficio per richiedere il pps number e mi è stato chiesto se – fino ad allora – avessi mai cambiato nome, un po’ di tentazione l’ho avuta…
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