MO’R e la sindrome di Yeats

Io sono quello che non paga il biglietto. Io sono quello che viaggia più leggero di tutti: sulle spalle di qualcun altro. Sono un peso, un oggetto ingombrante che è stato creduto utile ma che a un certo punto  della storia utile non lo è stato più: credevi fossi un simbionte e invece sono un parassita. Io in Irlanda c’ero, anche questa volta. Del resto è in Irlanda che li aspetto ogni volta. Anche sulla tomba di Yeats.

Avevo detto, in una di quelle che si definiscono sporadiche apparizioni:

Quanto al mio mal di schiena, le cose sono abbastanza semplici. Una situazione che sa tanto di mens sana in corpore sano, solo che va tutto al contrario.

Facile vivere con il mal di schiena di qualcun altro… E aspettare che lui ti dia l’ispirazione, con il suo dolore. Per poi girarlo a un personaggio inerme e incolpevole. Boh. Forse gli scrittori non sono esattamente questo, non giocano questo gioco (o almeno il loro gioco non consiste solo di questi, chiamiamoli così, taccheggi di emozioni ed esperienze). Adesso, comunque, vi racconto quel che è successo. Quel che ho visto accadere.

Quante volte si è interrogato sul suo viaggiare in Irlanda. Quante volte si è imbarcato nella inutile impresa di spiegare la sua Irlanda a qualcun altro. Vai, guarda, vedi: non c’è assolutamente nient’altro che sia possibile dire. Dovrebbe fermarsi lì. In genere non ci riesce: chissà che cosa pensano gli altri di lui, chissà che cosa pensano gli altri dell’Irlanda…

E in Irlanda ci torna, ancora una volta. Lo sa benissimo (sì: questo devo concederglielo) che questa volta c’è qualcosa di diverso. Nessuna mistica in questo: stiamo parlando di sensazioni, non di presagi: Aisling, se mai è stato qualcosa di diverso, ormai è solo un nome di donna e una parola del vocabolario di una lingua che sta morendo. Quando le sensazioni vengono confermate dai fatti pensi di avere avuto una premonizione solo per dimenticarti tutte le volte che non è andata così. Scoprirà che questa volta c’è qualcosa di diverso, ed è così indipendentemente dai suoi non-presagi.

Già l’inizio è stato diverso dal solito: quando mai non rispetta i programmi? Ma questa volta c’è qualcosa di diverso e ha lasciato più di qualche possibilità al caso. Vuole dare una chance alla buona sorte. Un peso che deve togliersi, anche se (sa anche questo) sta barando: per lui l’Irlanda è una sandbox in cui, e in questo è assolutamente sincero con sé stesso, crede che sì, in fondo non può andare così male.

Finisce che a Sligo ci arriva in ritardo, rispetto ai programmi. E questo determina gli eventi successivi. Non puoi sapere niente del prossimo istante: qui non ci sono nani sulle spalle di giganti, qui c’è solo una formicolante scala di nani uno sull’altro e nessuno di loro conosce quello precedente e quello successivo, ma ognuno, ognuno di loro, sa che il successivo in qualche modo dipende da lui, così come lui dipende da quello che lo ha preceduto.

Si tratta di andare a vedere l’isola, di andarci a piedi. Detta così suona veramente da deficienti, vero? Ma il Lough Gill è piccolo, in fondo. Se prosegui lungo la riva arrivi là dove puoi vedere l’isola di Yeats: Innisfree. Ma lo conosce, Yeats? Poco. però mica male questa idea di vivere sull’isolotto…

Lui non ci arriva a vedere l’isolotto. Il dolore, quello che io ho rubato a lui e ho sbolognato al povero Garda. Non se lo ricorda neanche il dolore: è così forte che, semplicemente, lo spegne per un po’. Esperisce la morte, almeno per un po’? No. Perché sulla morte ha di sicuro ragione il vecchio greco: se c’è lei non ci siamo noi. Ha una rivelazione, prima di non esserci, ma solo per un po’? No. L’ultima cosa che ricorda è di una banalità spaventosa, una domanda stupida. Poi non c’è bisogno di ambulanza, di soccorsi in riva al lago, di ricoveri in Irlanda, non c’è bisogno di morire in Irlanda: che cosa non si farebbe per farsi pubblicità…

Si sente meglio. Abbastanza da fare una battuta sulla banshee. E da scherzare sulla sindrome di Yeats: quasi ucciso dalla bellezza, qui, al Lough Gill. Vedi  Innisfree e poi muori? No.

Non è successo niente. Torna indietro. Nessuna rivelazione. La gamba (perché il dolore non è più lo stesso, non il collo, non la schiena: si è spostato, come se si fosse depositato, come se avesse scavato per tutto questo tempo, finendo in un grumo di sensazioni spiacevoli dentro l’anca) fa meno male. Quel dolore è lì da tredici settimane. Il giorno dopo scompare. La cura. Eccola, la rivelazione.

 

 

About maxorover

Ebbene sì. Max O'Rover parla anche Italiano. E in Italiano scrive. Un Irlandese con la geografia contro, ecco chi è Max O'Rover. Il falso vero nome (quindi vero o falso?) di Max O'Rover è, ovviamente, in Irlandese: Mach uí Rómhar. "Rómhar" è il ventre, ma anche il ventre della terra, quello in cui crescono i semi, in cui nascono gli alberi. Mica male per essere uno che non esiste, avere un cognome così evocativo. Prima o poi la scriverò, la vera falsa storia degli uí Rómhar. La storia del perché ci hanno cacciato via. Una storia fatta di boschi sacri che non abbiamo difeso, di maledizioni scagliate contro di noi da Boann. Un pugno di druidi falliti costretti a scendere a sud. Fino a che la maledizione sarà spezzata. Fino a quando potremo tornare. Quando sono in pausa pranzo, ogni giorno, mangio una mela. Non getto mai i semi della mela nella spazzatura. Li getto nel prato. Perché sotto sotto ci credo, alla maledizione. Mi ricordo la maledizione. Ma non ricordo quanti alberi devo far crescere: dieci? Mille? Un milione? Intanto continuo a gettare i semi nel prato, e ad aspettare il ritorno a casa.

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