Gli Italiani che vivono in Irlanda sono migliaia. Oltre 8.500 nel 2012, e il trend era decisamente in aumento. Con questa intervista a Federica Sgaggio, che avevamo già incontrato in occasione dell’Italo Irish Literature Exchange del 2013, cominciamo a indagare sulla vita degli Italiani “Italish”.
1 – Quando sei arrivata in Irlanda e perché?
La prima volta che arrivai in Irlanda era giugno 2003. Volevo partecipare al congresso mondiale della Wan, la World Association of Newspapers, adesso diventata Ifra-Wan. Di italiani c’eravamo Azzurra Caltagirone, la cui presenza aveva un perché, e io, che ero qui per pura curiosità.
Atterrai a Dublino al terminal 1 (ma il terminal 2 non c’era ancora) e mentre facevo la coda per prendere il taxi ebbi la sensazione di sentirmi a casa; non so perché.
La notte prima di partire per il mio primo viaggio che al di fuori dell’Italia facevo da sola mi sono messa a macchinare un sacco di piani sul futuro da orfano del mio bambino.
Mi dicevo che mio marito avrebbe senz’altro trovato una “matrigna” giusta per lui, che avrebbe tenuto viva in lui la mia memoria… (Ho sempre avuto paura di volare: dici che da quest’episodio si capisce?). Da sola, poi. Andar via da sola, abbandonando un bambino piccolo, come una madre snaturata!
A Dublino era chiaro fino alle 23; stavo in un albergo che mi piaceva da impazzire, lo Schoolhouse a Ballsbridge. Dublino era piccola e grande. Le persone erano gentili. Era l’unico posto al mondo dove le persone che chiedevano l’elemosina lo facevano sorridendo. Ero sorpresa, incuriosita. Fin dalle medie mi ero messa ad ascoltare musica irlandese, e i miei compagni mi prendevano tutti in giro. In realtà il mio primo grande amore era – ed è – bretone: è Alan Stivell, costruisce e suona arpe di tutti i tipi. Ma mi sono sposata con le musiche dei Chieftains, per dire.
2 – Quale è stato il tuo primo lavoro / la tua prima attività e che cosa stai facendo adesso?
La prima volta che stetti qui per un periodo lungo – quattro mesi, più o meno – fu nel 2011. Al lavoro – all’epoca lavoravo in un quotidiano – avevo ottenuto un’aspettativa non retribuita. Prima feci un corso di scrittura creativa all’università di Limerick; poi completai la stesura del saggio Il paese dei buoni e dei cattivi che poi uscì con la minimum fax.Tra l’altro, quando ho scoperto che la Biblioteca del Congresso di Washington e le biblioteche di Stanford, Harvard e Columbia l’avevano inserito fra i loro titoli mi pareva di sognare: di essere davanti al miracolo di un folletto irlandese.
Mio figlio frequentò per un periodo una primary school qui, e mio marito seguì un suo progetto di ricerca (lavora all’università).
Adesso, invece, sto finendo un Master in Giornalismo sempre all’università di Limerick. Il corso è stato faticosissimo. La velocità era folle; c’era una scadenza dietro l’altra, un progetto da finire quasi ogni giorno. Ho avuto qualche problema con la lingua, anche: l’accento del Munster può essere a volte di difficile comprensione, per dirla con un eufemismo. E registrare notiziari nello studio radiofonico in una lingua straniera può essere estremamente imbarazzante. Ho realizzato anche un documentario radiofonico sul giornale locale più antico della città di Limerick, il Limerick Leader. Ancora ricordo con terrore la fase di trascrizione delle interviste registrate. C’è una frase, in particolare, su cui a casa continuiamo a scherzare ancora adesso. È «ciuòst-tchiù». Ore, prima di capirla. Ho rallentato l’audio, ho ascoltato centinaia di volte. Era «to be honest with you». Insomma, «ciuòst-thciù», ci sono stati momenti in cui ho pensato «sai che c’è? Adesso faccio le valigie e torno a casa».
Poi, la realtà è che la parola «casa» smette di avere un senso univoco e costante, in situazioni di vita come queste. Io sono qui perché dopo oltre vent’anni di lavoro nei quotidiani italiani, la mia ultima esperienza, un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è finita davanti a un giudice e c’era un’intera vita da ricostruire; c’erano molte ferite da far guarire.
Qui tutti mi dicono che «you know, Ireland is such a small country…», e giustificano con questa considerazione il fatto che un numero esiguo di giornalisti si rivolge all’Employment Appeals Tribunal per ottenere riparazione per qualche diritto importante non rispettato. Se lo fanno – mi hanno spiegato in tanti – poi faticano a trovare un editore che abbia ancora voglia di assumerli, perché vengono visti come piantagrane.
A guardar bene, è la prosecuzione del mobbing – se è il mobbing o il bullying ciò per cui si sarebbe potuto depositare un ricorso – su un piano allargato, sul piano sociale. Non mi pare una bella cosa, «ciuòst-thciù».
Sono qui perché nella disperazione di sentirmi sola, inutile, bastonata, ingiustamente – secondo me, ovvio – espulsa dal mondo del lavoro, ho pensato che l’Irlanda poteva darmi in mano la chiave che apre la porta della mia rinascita.
Non so se è vero. Mi è piaciuto pensarlo, però. E in parte è certamente vero. Qualche giornale irlandese ha pubblicato pezzi miei. In autunno farò un’esperienza di lavoro non retribuita in una redazione irlandese. In giugno sarò a lavorare al mio terzo romanzo alla Fondazione Tyrone Guthrie ad Annaghmakerrig, in Co. Monaghan. La mia tesi di Master indagherà il legame fra libertà di stampa e mobbing, cercando di capire se impedire a un giornalista, via maltrattamenti sul lavoro, di esercitare il suo dovere professionale non si configuri per avventura come un’azione il cui effetto è limitare la libertà della stampa.
Tutti pensiamo alla libertà di stampa come qualcosa che ha una relazione con cose enormi. Sì; anche. Ma in realtà ha anche e soprattutto a che vedere con il dovere di informare i cittadini di una delibera di consiglio comunale; con il diritto dei cittadini di conoscere notizie anche minuscole.
Forse in tutto questo c’è un senso, un inizio di futuro che deve ancora rendermisi chiaro.
3 – Quale è stata la tua prima città irlandese e dove vivi adesso?
La mia prima città irlandese è stata Dublino. Io adoro quel posto; la sua dimensione provinciale e metropolitana allo stesso tempo. Ogni occasione è sempre stata buona per passare un periodo di tempo a Dublino (ma in Irlanda, anche: da quando ho scoperto la Listowel Writers’ week, poi…). Dal 2003 in avanti, ci sono stata almeno due volte l’anno; e qualche anno anche molto di più. Sono stata al Dublin Writers’ Festival, al Temple Bar Trad Fest… Ogni scusa andava bene, e ogni volta ho sentito storie meravigliose, giganti. Come quella volta che al Dublin Writers’ Festival sentii John Lynch che presentava il suo secondo libro…
Per dire: avendo ferie da smaltire obbligatoriamente, ricordo che fra il 2010 e il 2011 ho fatto la pendolare fra Verona e Dublino per frequentare un corso di dieci mercoledì tenuto dal corrispondente del Guardian Henry McDonald all’Irish Writers’ Centre. Lì, in Parnell Square, ho conosciuto Catherine Dunne, Lia Mills, June Caldwell, Celia De Freine, Niamh MacAlister, Anthony Glavin, Jack Harte, Nuala Nì Chonchuir, Mia Gallagher… Lì ho seguito corsi di scrittura, lì mi sono sentita a casa. È grazie all’incontro con Catherine che è nato l’Italo-Irish Literature Exchange, che quest’anno è alla quarta edizione. Con sette scrittori irlandesi e un gruppetto di italiani saremo prima a Roma, il 4 giugno, all’ambasciata irlandese in Italia; e poi a Sant’Agata de’Goti, meraviglioso paese del Beneventano, in Campania. E l’anno prossimo si realizzerà uno dei miei sogni più grandi: un’antologia che, sul tema del displacement e dell’altrove, coinvolgerà i sette scrittori irlandesi che ora vengono in Italia e otto scrittori italiani. L’antologia sarà pubblicata in Italia e in Irlanda da due diverse case editrici – Guanda in Italia, e la curatrice sarà Catherine; New Island in Irlanda – la primavera prossima. Credo che sia la prima volta che un simile progetto viene realizzato. Ne sono smodatamente fiera.
Adesso sono a Limerick. Anzi: sono a Castleconnell, che è a nord-est di Limerick, lungo le rive dello Shannon. È un posto magnifico. La città è un luogo strano: accanto a palazzi disabitati e in rovina, ci sono stabili tenuti come un lezioso confettino, e poi palazzi di cristallo. Molti ce l’hanno con Frank McCourt, che accusano di aver dipinto in «Le ceneri di Angela» una Limerick troppo miserabile per essere vera. Io non so se McCourt abbia inserito elementi di finzione oppure no, ma questo atteggiamento così risentito verso di lui mi fa pensare molto alla «veronesità» che ho conosciuto così da vicino. D’altra parte, è anche vero che camminando per Limerick nessuno ti fa del male, e la fama di «stab-city» al momento appare largamente immeritata.
4 – Quali sono le tre cose che ami di più, e le tre che odi di più, dell’Irlanda?
– Amo il cielo, la luce, i fiori, gli alberi che merlettano il cielo, i colori, soprattutto qui nei dintorni di Limerick, e lungo lo Shannon. Lo Shannon è maestoso, gigante, un’enorme vena che attraversa l’isola e arriva all’oceano su una costa battuta da venti furiosi. La vegetazione che ne copre le rive è rigogliosa, fantastica, monumentale.
– Amo la facilità con cui alcuni ostacoli apparentemente insormontabili vengono superati grazie a un’attitudine pragmatica e a suo modo solidale. In Italia i no sono sempre no, per un cittadino normale.
– Dell’Irlanda amo anche il silenzio.
– Quel che detesto è l’umidità: anche se mia madre è campana, mio padre era vicentino e io vengo dalla pianura padana, ovvero dal posto praticamente più umido d’Italia; ma tanta muffa così io non l’ho mai vista. Qui la biancheria non asciuga, i muri si riempiono di muffa. Ieri abbiamo tirato fuori dall’armadio un maglione e una cravatta ammuffiti. È la prima volta che mi capita una cosa simile.
– Un’altra cosa che non mi piace è l’assenza della vita urbana serale, della «cultura» (per capirci, eh) della passeggiata a scopo di cazzeggio ricreativo. A parte Dublino, la vita serale è nei pub, forse, ma certamente non per le strade. Il clima non aiuta, d’accordo. Ma è come se non ci fosse dimensione collettiva serale, non so, se non per un numero di birre o di drink che ti sottraggono non solo alla comunicazione con gli altri, ma perfino alla consapevolezza del tuo stesso nome.
– Infine, non riesco a sopportare il tipo di odore di cibo che c’è per le strade, nelle vicinanze dei ristoranti, e dentro i ristoranti. Ha sempre qualcosa di acre, una vena di vinaigrette, mescolato a un odore patatoso-pannoso. L’idea di cibo genuino è carne-burro-latte. Solo a pensarci ingrasso.
5 – Quali sono le tre cose che ami di più, e le tre che odi di più, degli Irlandesi?
– Degli irlandesi mi piace la facilità di chiacchiera, l’apparente disponibilità verso il prossimo e verso la vita, l’ottimismo (che non ho ancora capito come possa accoppiarsi con una sorta di rassegnazione, anche se non così devastante come quella che respiro in Italia). Mi piace anche il rapporto con il corpo, che mi è apparso chiaramente nella sua enorme diversità dal tipo di rapporto a cui l’Italia mi ha abituato quando sono andata a vedere lo spettacolo teatrale della scuola irlandese che frequenta mio figlio: non era solo uno spettacolo nel quale si recitavano battute; nello show era implicato tutto il corpo dei ragazzi e delle ragazze. C’era movimento, occupazione dello spazio, acrobazia…
– Mi piace anche il modo di vestire di tutta una «fascia» di irlandesi: quelli che non vogliono apparire come modelli di Burberry’s che abitano a Dublin 4 ma nemmeno sembrano usciti dalle storie di McCourt. È un modo di vestire pazzo, sconsiderato, folle. L’unico problema è che mediamente non c’è il senso dell’insieme, non c’è il gusto della disarmonia creativa, e i pezzi sono accoppiati in modo sconfortante. Ma i pezzi in sé sono belli, anche se meriterebbero altri accostamenti. Alcuni dei miei vestiti e dei miei cappelli più belli li ho comprati qui in Irlanda, e a prezzi ridicolmente inferiori ai prezzi italiani. Ogni tanto mi dicono «ma che bello quel cappottino italiano», e invece io l’ho comprato da Penney’s a pochi euro.
– Poi mi piace moltissimissimo la loro grazia nel raccontare storie. È adorabile, incantatrice. Ho letto cose splendide di autori irlandesi, e sento raccontare storie incredibili. Quando mi capita di guardare il Late Late Show sento storie meravigliose e tragiche. Ryan Tubridy è bravissimo nel porgere domande terribilmente intime in un modo non offensivo o intrusivo, ma – anzi – solidale. E qualunque sia il super-personaggio che passa per di là, la storia che ha da raccontare è inevitabilmente diversa dalla storia standard per la quale è conosciuto. Vengono fuori l’umanità, la singolarità, l’eccezionalità, il valore di ciascuna storia; anche delle storie dei «non famosi».
– Quel che proprio detesto, invece, è questa specie di ossessione con l’Irish Pride. Sugli scontrini del supermercato c’è scritto, sotto il totale, quale percentuale di prodotti irlandesi hai acquistato; sulle bottiglie d’acqua c’è scritto che è prodotta in Irlanda… Ora: capisco molto bene il bisogno di ancorarsi alle radici, ma quest’ossessione dell’orgoglio irlandese mi irrita allo stesso modo in cui mi irrita la retorica del Made in Italy, anche se si tratta di cose molto diverse fra loro. Il fatto è che quest’Irish Pride non ha a che vedere con una tradizione che resiste alla globalizzazione; non ha a che vedere con il «piccolo è bello», per quello che io riesco a capirne. L’Irish Pride ha senso solo all’interno di un’ottica di «brand». L’Irlanda fa di sé un «brand» sul mercato globale: il che significa che sembra quasi ritenere di non avere alcuna effettiva autonoma attrattiva; altrimenti si affermerebbe da sé, senza bisogno di bandierine bianche arancioni e verdi su ogni pacchetto di alimentari. Capisco il bisogno di affermarsi anche commercialmente: ma quando questo diventa un argomento sociologico a me comincia a dare fastidio. I compagni di scuola di mio figlio dicono che questo, l’Irlanda, è il più bel Paese del mondo. Mi dà lo stesso identico fastidio quando lo dicono gli italiani, eh. È proprio questo modo di «leghistizzare» la propria legacy che mi irrita. Ieri sera un’amica straniera mi diceva che compera solo frutta prodotta in Irlanda, perché le sembra più sano. Ottima mossa, certo. Ma per arrivare a Limerick da Sligo la frutta impiega lo stesso tempo che impiega ad arrivare dal Sudafrica in aereo. Ed è come se nessuno ne tenesse conto.
– Un’altra cosa che degli irlandesi tende a non piacermi – ma sono consapevole che si tratta di una generalizzazione con un’infinità di limiti – è la loro apparente sostanziale assenza di curiosità per ciò che avviene al di fuori dei loro confini. Al Master, per esempio, ero l’unica studentessa straniera. Mi sarebbe sembrato normale che qualcuno mi chiedesse come funziona l’informazione in Italia, visto che dopotutto ci ho lavorato per 22 anni. E invece nessuno ha chiesto, nessuno ha voluto sapere. Ci siamo solo noi, il nostro universo è autoportante.
– Infine, l’Irlanda ha tutta la grandezza e tutta l’insensatezza (per me che vengo dall’Europa continentale) di un Paese che è in pratica una cerniera fra l’Europa e l’America. Per meglio dire: fra la Gran Bretagna e l’America. È curioso, ai miei occhi, il fatto che gli irlandesi piazzino un’enorme enfasi sulla loro lingua Irish quando poi ciò che consente loro di muoversi per il mondo è il lascito dell’odiata dominazione britannica, e cioè la lingua inglese. Se la lingua Irish va finendo c’è un motivo storico, credo. Tenerla viva è una questione culturale, ma non può né deve diventare una questione politica, altrimenti si trasforma in una sorta di leghismo irlandese. In ogni caso, torno alla questione della «cerniera». Una cosa sorprendente è che in Irlanda pare impossibile separare un processo di apprendimento dall’esistenza di una o più slides di Powerpoint. Per un luogo in cui lo storytelling – il filò, diremmo in Italia – ha l’enorme valore che ha, questa cosa delle slides Powerpoint non smetterà mai di stupirmi. È il sintomo di un’americanite che ha come corollario una faccenda curiosa: quando scrivi una mail, è bene che tu stia attento a esprimere un solo concetto. Se ne esprimi due, con ogni probabilità il reply conterrà risposta alla tua sola prima domanda. D’altra parte, in ambito anglosassone (per carità: non diciamo che l’Irlanda fa parte dell’ambito anglosassone!) ti dicono sempre di regolarti così: «one paper, one idea», «un articolo accademico, una sola idea».
6 – Hai nostalgia dell’Italia? Se sì, come la gestisci?
Ho nostalgia dell’Italia quando sono qui, e nostalgia dell’Irlanda quando sono in Italia. La gestisco piangendo, pensando che tornerò presto. Pensando che la vita è il movimento di un pendolo tangenziale a una circonferenza sempre più larga. Non ho abbastanza soldi per andare in Italia quando mi gira. Devo far funzionare la testa e la pancia…
7 – Che cosa suggerisci a chi vuole o deve trasferirsi in Irlanda?
Questa è una domanda difficilissima.
La prima cosa che mi viene in mente è che qualunque sia la sua qualificazione accademica o il suo livello di conoscenza della lingua, chiunque arrivi in un Paese diverso dal suo è uno straniero. Posso solo immaginare come si debbano sentire le persone straniere che, venendo da Paesi con scarso «sex appeal» sul «mercato» della migrazione, approdino in Italia, Paese che giudico sempre più esclusivo e a tratti sinceramente razzista.
In ogni caso: non bisogna mai dimenticare che si verrà considerati sempre come stranieri. È inevitabile, in un certo senso. Non sappiamo che limiti socialmente accettati ha la confidenza, per esempio; fino a dove ci possiamo spingere parlando di noi o chiedendo di altri in una situazione sociale. A me è capitato di ricevere confidenze di persone che mi raccontavano che con una persona irlandese non avrebbero mai potuto arrivare a quel livello di descrizione delle loro emozioni, perché una persona irlandese – così mi dicevano: io non ci ho praticamente provato – avrebbe guardato a terra, sarebbe stata silenziosa e avrebbe cambiato argomento.
La seconda cosa che suggerisco è di farsi un’idea del luogo dove andranno. Di leggere, sentire persone, guardare foto. Quando si arriva in un posto che non è il nostro abbiamo bisogno di riferimenti visivi che parlino alle nostre emozioni; abbiamo bisogno di categorie interpretative che non ci facciano smarrire in sensi che non capiamo. Guardate la tv irlandese (alcune cose di Rte sono spazialmente belle), leggete i giornali irlandesi, ascoltate la radio. Fatevi un’idea, anche se vaga, di dove andrete.
La terza cosa che mi viene è che per adesso il lavoro non c’è; o che, perlomeno, non ce n’è tanto. Ma questo non vuol dire niente. A ciascuno di noi basta che di lavoro ce ne sia uno e uno soltanto: quello che siamo disposti a, o desideriamo, fare noi. Dunque, che la situazione dell’economia non sia esaltante non deve bastare a scoraggiare nessuno, credo.
Chi va via dal suo Paese compie un atto di fiducia in se stesso. Non c’è nessun motivo ragionevole di misurare la sensatezza di questa fiducia sull’orizzonte delle statistiche sull’occupazione. Se è in Irlanda che si vuole venire, che si venga; che si provi; che ci si infili nel ginepraio e che si veda come si può venirne fuori.
Se il problema è un lavoro purchessia, allora è bene andare in Paesi ricchi, certo; ricchissimi.
Se invece la scelta dell’Irlanda arriva da altre considerazioni, be’, secondo me provarci è un dovere.
Ma la cosa più importante è sapere la lingua. Sono arrivata qui che avevo il Certificate of Proficiency in English, e lo stesso è stata dura e a volte continua ad esserlo; come se abitassi a Bergamo e qualcuno mi parlasse in dialetto, d’altra parte… Se non sai la lingua, non partire. Non ancora. Oppure parti per studiare la lingua, ma non per lavorare o per studiare altre cose.
E in ogni caso, in bocca al lupo.
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