[ CONTIENE SPOILER!!! ]
Ma, tra questi milioni di persone, ci sono gli Artisti: sono loro che riescono a trarre il bene anche dall’aberrante, perché riescono a far nascere dall’aberrante qualcosa di buono, qualcosa di bello: una storia raccontata bene. Emma Donoghue è tra quegli artisti e così, dalla storia, vera, dell’aguzzino austriaco Josef Fritzl, fa nascere Room. E Room è un esempio perfetto in questo senso: la storia spaventosa di Jack e di sua madre (sapremo poi che Ma’ ha, ovviamente, un nome e cognome nel ‘mondo esterno’, ma noi non sapremo mai quali siano quel nome e cognome, perché Jack non ce lo dice) è un dato di fatto, una condizione oggettiva, un pezzo di esistenza oscura raccontata con la voce di un ragazzino che ha avuto in sorte un mondo (quasi) perfetto ma dannatamente piccolo.
La Donoghue è stata eccezionale nel riuscire a dare alla voce di Jack una leggerezza, e insieme una profondità, straordinarie: noi conosciamo il mondo, ovvero la Stanza, così come la conosce Jack che con le sue parole bambine (il sapiente uso dell’iniziale maiuscola per le cose che per Jack sono uniche e pertanto meritano un nome proprio è come un Trattato di Linguistica, ma molto più divertente) ci racconta inconsapevolmente il suo essere al centro di una tragedia. Aggrappato a Ma’, che si aggrappa a sua volta alla routine e all’amore per il figlio, per non impazzire (anche se ogni tanto Ma’ finisce nella triste condizione di ‘Andata’) Jack ci mette di fronte a problemi epistemologici di portata enorme (in ultima analisi nelle sue speculazioni sul perché e il come del mondo, Jack è una sorta di Kant bambino che ci fornisce brillanti interpretazioni sul problema della conoscenza) e svela ai nostri occhi adulti, di noi lettori impossibilitati ad agire perché soltanto osservatori, ciò che gli sta accadendo: una spaventosa tragedia ma, questa volta, affrontata secondo un punto di vista completamente diverso, il punto di vista di una vittima inconsapevole che crede di essere in un mondo perfetto: piccolo certo, piccolissimo rispetto alla vastità di non-mondo che la televisione fa vedere (quanta ironia e quanta voglia di dare ragione al Jack che, quando scopre il ‘Fuori’, si interrogherà sulla possibilità che certi personaggi della televisione siano più o meno veri di altri. Neanche per noi ormai è facile distinguere i veri cartoni animati da quelli falsi, tanto si somigliano gli uni agli altri…) ma con regole certe, senza pericoli, e con la consolazione dell’Alimento Perfetto: il latte materno (possibilmente dalla tetta sinistra…). Un mondo (anzi: Mondo. Anzi: Stanza) che sarebbe perfetto ma in cui il male, che viene da ‘Fuori’, dal grande nulla esterno in cui l’universo che la televisione rappresenta il caos assoluto nell’epistemologia jack-esca (un caos assoluto di tutto ciò che la televisione mostra, più il mare in cui finiscono le cose che escono dai tubi del bagno), esige il suo tributo in cambio del cibo e dei ‘premi della domenica’, incarnandosi in quell’Old Nick che entra di notte e fa cigolare Letto.
Jack ha compiuto da pochissimo cinque anni quando la routine di Stanza esplode. Ma’ ha mentito, ha mentito molto e a lungo e adesso, per di più, vuole costringere Jack a fare cose pericolose, cose che potrebbero ucciderlo, facendolo tornare a sciogliersi anche lui nel caos che sta fuori da Stanza. E Jack, rischiando la vita, salverà Ma’ e salverà se stesso (anche se non sapeva di aver bisogno di essere salvato). Così, a cinque anni e qualche giorno, nel simbolico giorno di Pasqua, Jack scoprirà un mondo letteralmente nuovo: il nostro. Un mondo pieno di troppe cose, un mondo in cui è normale ‘sprecare’, un mondo pieno di giocattoli e raffreddore, di altre famiglie e cani e altre stanze, che sono fuori e dentro insieme, e non sono la Stanza. E un mondo in cui finisce immediatamente in televisione e preda dello star-system del dolore (niente di nuovo, niente di falso: Avetrana docet). C’è forse qualche forzatura nelle avventure di Jack ‘qua fuori’, ma solo in alcune pagine un po’ sottotono rispetto al libro nella sua interezza e Jack, forse, è soprattutto, appunto, il simbolo perfetto della speranza di chi vuole far nascere il Bene dal male, di quanto la vita, ogni vita (le pagine dedicate alla morte della pianta dentro Stanza sono commoventi e magistrali), addirittura anche quella nata da uno stupro, sia, o almeno possa essere, in fondo, Bene.
Room è scritto da un’autrice Irlandese che vive in Canada ed è ambientato negli Stati Uniti (ma potrebbe esserlo ovunque): è rimasta comunque nel romanzo la cifra della grande letteratura irlandese? Io credo di sì.
Si potrebbe cogliere un parallelo tra Jack e la voce narrante di Vita Dura di Flann O’Brien (anche il mondo di Finbarr cambia irrimediabilmente all’età di cinque anni, anche la vita di Finbarr è indirizzata dagli eventi) e, soprattutto, mi sembra si possa condurre un interessante parallelo con Finale di Partita di Beckett: come Hamm e Clov, Jack e Ma’ sono ridotti a vivere in un universo minimale, una stanza – isola in mezzo al caos: come Hamm e Clov, Jack e Ma’ hanno bisogno l’uno dell’altra per definirsi.
Ma, se Hamm e Clov non hanno più niente, neanche la speranza (chissà se il topolino intravisto da Jack è lo stesso scappato dalla cucina di Endgame, in cerca di compagni di sventura più affabili?), la Donoghue che è una madre, e quindi non può essere d’accordo con Beckett sul fatto che i bambini siano solo catastrofi da stroncare sul nascere, lascia ai suoi due personaggi una speranza grande quanto un intero mondo da esplorare, qua fuori.
Un gran peccato per quello cremoso della sinistra, però…
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