la valigia dell'emigrato

La valigia dell’emigrato

Ho smesso di combattere. È quello che si fa quando finisce la guerra. Se la guerra la si è vinta è anche meglio. Come? Guerra è sempre? No, francamente non adesso e non per me. E, soprattutto, perché è questa la cosa più interessante: non qui.

Qui sta per il posto dove sono nato.

Ricordo bene quando ero ancora in guerra. La tentazione di assalire – e non verbalmente! – i due tizi che davanti a Mulligan’s andavano blaterando di quartiere fatiscente.

Oddio: voi ce l’avete presente cosa c’è davanti a Mulligan? Quindi avevano anche ragione, da un certo punto di vista.

Ma il problema era proprio il punto di vista. Questo accadde prima, almeno un paio di anni prima della storia dell’Apollo. Per me adesso l’area fatiscente è una grandiosa storia da raccontare.

Ricordo bene quando ero ancora in guerra. La tizia sul ponte che è il simbolo della mia Città, il suo rabbioso, sprezzante: qui c’è sempre un vento di mer*a. La tentazione di farle fare la fine che fa il junkie in Indovina chi sposa Sally.

Ricordo benissimo, tra l’altro, l’accento che avevano i due tizi e quest’altra tipa. Lo ricordo perfettamente. Due zone molto diverse, molto lontane tra loro. Ma per me ormai sono una faccia una razza

E qui devo aggiungere una postilla: sul fenomeno che mi teneva la lezioncina sulle differenze tra nord e sud. Si torna al mio punto di vista: per me è tutto uguale, qui.

Lascio le isole, a parte. Perché tra isolani è un’altra storia.

Avrei potuto, avrei dovuto, arrabbiarmi con i tizi del hanno solo una scogliera? Ero a tavola con B. Avevo di meglio da fare.

Avrei potuto, avrei dovuto, arrabbiarmi quando per l’ennesima volta mi sono sentito dire che in Irlanda si mangia male? Mi è dispiaciuto, perché da ragazzi giovani mi aspetterei una apertura mentale e una curiosità maggiore. Ma, sinceramente: pazienza.

Ed eccoci alla valigia. Ci chiedono cibo. Che si dia loro i baiocchi, dicevo…

A voler dare a questo post più importanza di quella che vuole avere sarebbe interessante indagare i come e i perché attorno ai quali questa razza eletta – lasagna mit uns – si arroghi il diritto di escludere altri che, se potessero, si porterebbero la valigia con il proprio cibo, ma non possono.

Ma se ti eleggi a razza eletta, che sia anche solo il diritto della lasagna divina, è chiaro che finisce in una certa maniera.

Io non mi sono mai sentito eletto. E non è, non può essere un caso che, come Patria, mi sia scelto un Paese che è ed è sempre stato un underdog (questa parola sta così, in inglese, ché suona meglio).

Oggi è esattamente il giorno in cui comincia la mia, la nostra nuova vita. La vita che abbiamo vissuto nel paese in cui siamo nati è finita. Ripartiremo presto. For good. Anche questo sta in inglese.

Ripartiremo con una valigia (o uno scatolone, non ho ancora capito) dell’emigrato.

Ci saranno i baiocchi, o chi per loro, per gli emigrati.

Il resto saranno tutto ciò che trovi nella valigia di chi torna a Casa.

C’è la traduzione del Beowulf di Seamus Heaney. Autografata. Non mi ricordo quasi nulla di quella sera d’estate del 2009 quando lo vedemmo. Ricordo la sua modestia davanti al teatro pieno e il fatto che, a un certo punto, disse che gli sarebbe proprio servito un Bushmill.

Ci sono i libri di B. L’opera quasi omnia. Mi servono, quei libri, perché lavorando con B ho bisogno di controllare riferimenti, come quello sul whiskey.

Potrei raccontarvela la storia di B, me e il riflesso nella bottiglia di whiskey.

Ma non lo farò.

C’è Bella Famiglia! Sì: The Snapper, ma in italiano, perché ho deciso di provare a rendere la storia “giocabile” in On Stage!, il gioco di ruolo teatrale che è un mio vecchio pallino e per il quale avevo già scritto, tanto tempo fa, un’altra cosa irlandese.

C’è, a onor del vero, anche una bottiglia di brut. Potrebbe, però, quella bottiglia, che ha riposato sul fondo della baia di Spezia, essersi imbattuta nel fantasma di Cass Cleave.

Non andranno in valigia, perché sono troppo preziosi, i biglietti Aer Lingus del primo viaggio verso Casa.

Era il 12 agosto 1999. Il 19, sul volo di ritorno, ero già un’altra persona.

Non andranno in valigia, perché sono troppo preziosi, i biglietti Aer Arann di un ritorno da Inis Mór a Indreabhan. Chissà se quel viaggio è quello fatto dopo non essermici lasciato morire, su Inis Mór.

E poi in valigia devo lasciare spazio ai baiocchi…

About maxorover

Ebbene sì. Max O'Rover parla anche Italiano. E in Italiano scrive. Un Irlandese con la geografia contro, ecco chi è Max O'Rover. Il falso vero nome (quindi vero o falso?) di Max O'Rover è, ovviamente, in Irlandese: Mach uí Rómhar. "Rómhar" è il ventre, ma anche il ventre della terra, quello in cui crescono i semi, in cui nascono gli alberi. Mica male per essere uno che non esiste, avere un cognome così evocativo. Prima o poi la scriverò, la vera falsa storia degli uí Rómhar. La storia del perché ci hanno cacciato via. Una storia fatta di boschi sacri che non abbiamo difeso, di maledizioni scagliate contro di noi da Boann. Un pugno di druidi falliti costretti a scendere a sud. Fino a che la maledizione sarà spezzata. Fino a quando potremo tornare. Quando sono in pausa pranzo, ogni giorno, mangio una mela. Non getto mai i semi della mela nella spazzatura. Li getto nel prato. Perché sotto sotto ci credo, alla maledizione. Mi ricordo la maledizione. Ma non ricordo quanti alberi devo far crescere: dieci? Mille? Un milione? Intanto continuo a gettare i semi nel prato, e ad aspettare il ritorno a casa.

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