La scrittura e l’Irlanda
Appunti intorno alle parole e quella capacità tutta irlandese di comporre racconti, paesaggi, futuri e piccole comunità
In Irlanda vengo molto spesso, per amore.
E non dell’isola.
Sì, il paese mi piace, ma io abito sulle Alpi e ho bisogno di un orizzonte verticale. Potrei vivere, forse, in Tibet ma non in Irlanda.
Eppure ne subisco un fascino antico, profondo, ancestrale, oserei dire. C’è qualcosa tra l’oceano, l’erica, le brughiere, la torba e le foreste che mi conduce sui miei monti, quelli della Valsesia, estremo nord di un paese comunque mediterraneo.
Credo sia lo stesso richiamo interiore che ha portato i monaci, forse già druidi, sulle strade d’Europa, penso a San Colombano e a San Bernardo.
Che mondi, che uomini, che sincretismo di pensiero. Ne ho tratto un romanzo in uscita nel febbraio del 2020: “Lo sciamano delle Alpi”.
A scapito del titolo e della storia, le radici sono tutte inaspettatamente irlandesi. Come tanto dell’isola c’è nel mio piccolo saggio, un po’ filosofico un po’ memoir: “Il suono della solitudine” (Ediciclo, 2018).
Per non parlare della triangolazione di vita e di storia che mi ha accompagnato nella stesura de “La figlia del partigiano O’Connor” (Clichy, 2017).
Se però penso a cosa sia per me l’Irlanda della scrittura mi rivedo a passeggio tra Sutton e Bull Island, nelle ore di bassa marea, mentre devo consegnare un racconto ad un editore italiano e l’orizzonte si riempie all’improvviso di un ferry Stena Line e io non so perché ripenso all’improvviso a quel pilota americano abbattuto nel Vietnam e spedito in convalescenza a Napoli dove s’innamora della scrittura e della bottiglia:
“write drunk, edit sober”,
come ci ha insegnato Ernest Hemingway.
L’abbiamo visto negli occhi di Jack Kerouac, ma l’abbiamo messo a fuoco qui: guardando verso le ciminiere del porto di Dublino. Ecco, non sono i miei pochi libri che fanno incursioni in Irlanda, ma la scrittura stessa ad essermi amica irlandese.
A quante pagine ho lavorato nei sotterranei del Trinity College? Nell’angolo tra i bagni e le macchinette del caffè? Ci andavo in bicicletta da Howth, finché c’era quella intercapedine angusta, dimenticanza in mezzo alla meraviglia di un‘università entrata nel mito.
Ci andavo affrontando la costa controvento perché la scrittura è una fatica che non si può raccontare. Eppure è gesto semplice quanto pedalare. Non ha bisogno di benzina – birra sì, petrolio no – non ha paura di niente.
Se non che il cielo ci cada sulla testa.
Per questo l’Irlanda è il luogo delle parole, in qualsiasi lingua, nei nembi, nei cirri, tra gli squarci di sole e lo sfrecciare di aerei, scrosci di pioggia e nuvoloni neri, il cielo può solo mutare, cangiare colore e stato d’animo, ma non cadrà sulla testa di uno scrittore.
Ecco la certezza, la coperta di Linus, il mio feticcio: un paese dove il cielo non schianterà mai al suolo. Dove puoi sederti al pub e chiacchierare di storie, miti, racconti, con gli affabulatori italiani e irlandesi che lì conosci.
Puoi frequentare autori grandi e piccoli e medi e di ogni genere.
Basta sedersi, parlare e ascoltare. Puoi spedire una mail a un cantante famoso, famosissimo, Christy Moore, e chiedergli tu – signor nessuno – se gli piace la tua idea.
La mattina dopo ti risponde e ti incoraggia, perché le parole, la musica, le tele dei pittori in certi luoghi creano comunità, anche per chi come me è di indole solitaria, quasi eremitica e alla chiacchiera preferisce il silenzio, al massimo l’ascolto.
E poi, ironia della sorte, pure i più schivi e solitari prima o poi passano dal pub, basta saper attendere per incontrare Roddy Doyle.
“Facile per te che sai l’inglese!” Ecco un altro mito da sfatare.
Conosco la lingua con la dimestichezza di una gallina in parlamento. Frequento le parole, quelle sì, le scritture, non la lingua. Non è la mia, non la capisco, a volte la balbetto.
Non credo che sia necessario conoscere una lingua per frequentare un popolo. Una lingua, penso, è importante solo per chi ci vive dentro. Certo, conoscerla aiuta, serve, ma non è questo che ci può fermare. Specie se ci si trova di fronte a un paese, una nazione, un’isola dove ogni disgrazia si annega in un’alzata di spalle, in un boccale di Guinness.
Dove un signore anziano al pub ti guarda, guarda l’amore e dice: “Enjoy! Doesn’t last!” Fallo adesso, vivi ora, che non ci sarà un altro tempo.
Per questo in Irlanda, immagino, nascono ancora bambini. Perché la vita è nel presente, non nella fine del mondo imminente, nel crollo del pianeta dietro l’angolo, nella paura preventiva del domani…
Qui il futuro è solo polvere che a volte si deposita sui pensieri. Basta un gesto semplice della mano e tutto torna come prima. Ripulire il presente dai presagi nefasti è uno spolvero.
La scrittura, il raccontare storie, immaginarle, viverle dentro di sé, è questo: un gesto che non richiede troppi pensieri, ansie, paure. Si parte, si fa, una parola alla volta, un punto, una virgola, una maiuscola, due trattini, torni indietro, cancelli, rifai, sono segni piccoli, alla portata di tutti, imparati a scuola quando il mondo era infinito…
Sono pezzetti d’inchiostro, nulla di più: eppure contengono quella magia che scoprirai alla fine, rileggendo. Scrivere un libro è mangiare un elefante.
Ci sono due modi: quello del proverbio africano che dice candidamente: va tagliato a fette; quello del “Piccolo Principe” dove lo si ingoia e gli altri vedono un cappello.
Tutto questo in Irlanda è maledettamente più semplice perché il vento trasporta cieli infiniti e cambia colori, temperature, stati d’animo e idee, alza tutte le sottane, anche quelle dei preti.
Non mi metto ad elencare quanta scrittura universale è nata, partita, tornata nell’isola.
Ricordo solo che una scelta è necessaria: Frank parte ai cancelli di North Wall, Evelyne resta. E non è una questione di biglietti, c’erano per entrambi. Uno vive, l’altra racconta.
O viceversa?
Grazie, mister Joyce.