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‘La prima o l’ultima’? Un racconto sul pane irlandese

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‘La prima o l’ultima’?

Un racconto sul pane irlandese

di Max O’Rover.

Trenta anni.

Abbastanza tempo per vedere quelle piccole bocche spuntare anche sugli autobus. Porte USB. A me sembrano tante piccole bocche. Sono bocche con un naso blu.

Le strade sono più o meno le stesse, l’autobus è lo stesso, eppure non lo è. L’autobus con le sue tante piccole bocche blu.

Così tanti stranieri, sul bus. Eravamo noi gli emigrati. Lo siamo ancora. Ma, allora, che ci fanno qui? Accenti diversi e diverse lingue, al telefono. Così tante persone che chiamano qualcun altro, da qualche altra parte. C’è almeno una cosa che ho capito del mondo di oggi: c’è un sacco di gente che vorrebbe solo essere altrove. Da un’altra parte, con qualcun altro.

Mi sono perso? Il bus è sul lato sbagliato della strada.

Quando ero piccolo era sempre una corsa per salire di sopra. Di sopra, possibilmente il primo sedile davanti al finestrino. Quella sensazione di essere su una nave a vela.

Bucanieri a Dublino.

Non più. Non con le mie gambe di adesso. Così è anche più facile arrivare all’autista, dal mio sedile per anziani e disabili. È un uomo di colore. Non li chiamano, non li chiamiamo, più negri. Gli chiedo se sono sull’autobus giusto. Stiamo andando nella direzione sbagliata?

L’uomo di colore dice che negli ultimi venti anni la linea del bus non è mai cambiata. E, sì, stiamo andando dove devo andare.

Ha ragione. Dopotutto, questa cosa dell’arrivare allo stesso posto esattamente dalla direzione opposta a quella che ti aspettavi è così appropriata per questa città.

Il supermercato è ancora lì.

Davanti al supermercato, quella che fu la mia casa.

Ci sono dei bambini, in giardino. Potrebbero essere i miei nipotini, se non fosse per il cloore della pelle. Dopotutto, potrebbero esserlo anche con quel colore. Il colore delle loro magliette GAA è lo stesso della mia, di quelle dei miei figli, se fossero nati qui.

Sento il mio corpo immobilizzarsi. Il mio progetto va in pezzi esattamente in questo momento. Non parlerò con quei bambini. Non busserò a quella porta. Quella porta che, in inverno, era così dura che io e i miei fratelli uscivamo usando la porta della cucina e scavalcando il muro del giardino sul retro.

Ma la porta si bloccava in inverno? O era per il caldo, in estate?

Non mi ricordo più.

Era a causa del freddo o del caldo? Oppure non si bloccava affatto, era solo che noi volevamo scavalcare il muro: noi e la nostra volontà di andare oltre.

Non busserò a quella porta.

C’è un altro modo però.

No, non mi metto a scavalcare il muro.

Ma seguo, al contrario, il percorso che era quello delle nostre fughe. Attraverso il cancello, seguo l’edificio, raggiungo il muro.

E così posso vederlo. Un ciliegio di trentatre anni. Un colpo di vento e la magia si compie. I petali mi colpiscono, loro e l’odore. Ai miei nipotini piacerebbe questa magia. I fiori dell’albero del nonno.

Forse, almeno.

Torno indietro e arrivo alla mia ultima destinazione. Il supermercato.

Ed è ancora lì.

Il mostro.

Sono sicuro che è ancora lo stesso. L’affetta-pane. Anche gli scaffali del pane sono ancora allo stesso posto. Ne prendo uno. Non è così caldo, però. Del resto non può esserlo: è troppo tardi.

Con il mio pane che non è così caldo mi avvicino al mostro. Gli lascio affettare il mio pane. Io e i miei fratelli ci accapigliavamo sul decidere quale fosse la prima e quale l’ultima fetta del pane: da che parte cominciare a contarle?

Faccio quello che avevo sempre amato fare.

Immediatamente mi metto in bocca la prima (o l’ultima?) fetta. La crosta. Croccante. Ero fortunato, perché non avevo da accapigliarmi per quella fetta: i miei fratelli preferivano quelle all’interno. Non la prima o ultima, non quelle crostose, croccanti, delle estremità.

Sento immediatamente quella sensazione sotto le orecchie, alle estremità della mandibola. Il risultato della bontà del pane e della nascita di una lacrima. Del sapore che ha Casa.

About maxorover

Ebbene sì. Max O'Rover parla anche Italiano. E in Italiano scrive. Un Irlandese con la geografia contro, ecco chi è Max O'Rover. Il falso vero nome (quindi vero o falso?) di Max O'Rover è, ovviamente, in Irlandese: Mach uí Rómhar. "Rómhar" è il ventre, ma anche il ventre della terra, quello in cui crescono i semi, in cui nascono gli alberi. Mica male per essere uno che non esiste, avere un cognome così evocativo. Prima o poi la scriverò, la vera falsa storia degli uí Rómhar. La storia del perché ci hanno cacciato via. Una storia fatta di boschi sacri che non abbiamo difeso, di maledizioni scagliate contro di noi da Boann. Un pugno di druidi falliti costretti a scendere a sud. Fino a che la maledizione sarà spezzata. Fino a quando potremo tornare. Quando sono in pausa pranzo, ogni giorno, mangio una mela. Non getto mai i semi della mela nella spazzatura. Li getto nel prato. Perché sotto sotto ci credo, alla maledizione. Mi ricordo la maledizione. Ma non ricordo quanti alberi devo far crescere: dieci? Mille? Un milione? Intanto continuo a gettare i semi nel prato, e ad aspettare il ritorno a casa.

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