C’è modo e modo di parlare d’Irlanda, come c’è Irlanda e Irlanda.C’è quella di Carroll’s, di Temple Bar e della Guinness, e c’è quella delle Isole Aran, delle Cliffs of Moher e dei Gardens of the Remembrance, quella di Molly Malone, di S. Stephen’s Green e del James Joyce Centre.
Quale sia stata quella che mi ha spinto a lasciare il mio Paese, ancora non lo so: probabilmente nessuna da sola, e tutte insieme.
Ma poi, di fondo, qual è realmente il mio Paese?
Per rispondere a questa domanda ho deciso di fare le valigie e lasciare Perugia, la mia città natale, dopo 29 anni di onorato servizio, con un biglietto di sola andata per Dublino; non è stata una decisione impulsiva, né così rapida nella sua gestazione: indovinate dove mi sono rifugiato, ogni volta che ho avuto bisogno di staccare da una vita che non volevo?
Ogni volta che volevo trovarmi in un posto familiare ed essere felice?
Esatto…
Quindi la risposta era lì a portata di mano, ma tante volte ho trovato stupidi motivi per rimanere, più che altro delle scuse che mi auto-adducevo per celare una paura di fondo, fino a quando un giorno qualcuno mi ha detto:
Non esistono compromessi
E lì mi si è aperto un mondo.
Come potevo continuare a stare fisicamente in un posto quando mentalmente viaggiavo altrove?
Quando una giornata di pioggia, una Guinness dal gusto sbagliato spillata nel modo sbagliato, una The Fields of Athenry scelta mica tanto casualmente dal mio lettore mp3, una foto, una tazza di tè, mi facevano venire nostalgia di casa?
Ops, ho detto casa.
Ho lasciato il mio posto di lavoro (a tempo determinato e a tempo parziale), ho avvertito famiglia e amici e mi sono mentalmente preparato a questa nuova avventura: sarò pazzo, sarò incosciente, o probabilmente ancora non mi rendo conto di quello che ho deciso di fare, ma non me ne pento affatto.
Ho deciso di andare a vivere a Dublino: dovrò trovare un lavoro, dovrò trovare una casa
Ma non sono spaventato: sono felice.