Invoking the inhuman: Samuel Beckett e Jack Yeats – Intervento al San Patrizio Livorno Festival Numero Uno, 16 marzo 2019
Abstract
L’intervento di Federico Platania, scrittore e curatore del sito www.samuelbeckett.it, riguarda la relazione tra le opere di Samuel Beckett e i quadri di Jack Yeats, fratello del poeta William Butler.
Beckett conobbe Yeats nel 1930 e per tutti gli anni Trenta si frequentarono a Dublino con regolarità. In una delle ultime interviste concesse prima di morire, Beckett ricordava così i suoi incontri con Yeats:
“Ti veniva incontro nel suo studio, prendeva un dipinto e lo poggiava sul cavalletto per farmelo vedere. Poi preparava uno sherry. Andavamo anche a passeggiare insieme. Non parlavamo molto”.
I dipinti di Yeats ebbero un potente impatto sull’immaginazione di Beckett.
(“Un giorno dissi a Jack: questo paesaggio inumano evoca, provoca l’inumano in sé. Lui rispose: “Invoca, direi”. Uno scambio di battute che sembra uscito da Finale di Partita)
Jack B. Yeats morì a Dublino il 28 marzo del 1957. Alcune delle sue opere più importanti sono conservate nella National Gallery of Ireland.
Un’amicizia fatta di silenzi
Questa è la storia di un’amicizia tra due grandi artisti. Uno è famosissimo, Samuel Beckett. Lo conoscono tutti per via di Aspettando Godot, e anche chi non ha mai letto o visto quest’opera teatrale bene o male sa di cosa parla. L’altro è meno noto e lo è soprattutto per interposta persona: Jack Butler Yeats, famoso più che altro per essere il fratello del grande poeta William Butler Yeats, ma – almeno all’interno dei confini irlandesi – pittore di fama nazionale viva ancora oggi.
Sam e Jack, insomma. E sembrano davvero una coppia di personaggi beckettiani. In una delle ultime interviste concesse prima di morire, Beckett ricordò i suoi incontri con Yeats. Sentite come li descrive: “Jack mi veniva incontro nel suo studio, prendeva un dipinto e lo poggiava sul cavalletto per farmelo vedere. Poi preparava uno sherry. Andavamo anche a passeggiare insieme. Non parlavamo molto”.
Il silenzio era il tessuto che connetteva i due artisti. Non a caso sembra che Beckett preferisse andare a trovare Yeats, che all’epoca abitava a Fitzwilliam Square (a poche centinaia di metri da Saint Stephen’s Green), nei momenti in cui era assente la moglie di Yeats, Cottie, che Beckett considerava troppo chiacchierona (“chatter”).
L’anello di congiunzione tra Beckett e Yeats fu Thomas McGreevy, figura centrale della cultura irlandese del Novecento. Poeta, letterato, critico d’arte, e – dal 1950 al 1963 – direttore della National Gallery of Ireland, la stessa pinacoteca che ancora oggi ospita una ricchissima selezione delle opere di Yeats. McGreevy – che aveva già introdotto Beckett nella cerchia degli amici di Joyce – fece conoscere al futuro autore di Aspettando Godot anche Jack Butler Yeats.
Il pittore e lo scrittore
La cosa curiosa del rapporto tra Beckett e Yeats è che lo scrittore adorava l’opera del pittore mentre il pittore aveva delle forti perplessità sull’opera dello scrittore. A un certo punto Yeats definì l’opera di Beckett come “amorale”.
Nel 1936 Samuel Beckett acquistò un dipinto di Yeats, “A Morning”. 30 sterline. Una cifra impressionante per l’allora squattrinatissimo Beckett. Si fece prestare i soldi da suo fratello Frank. Quel quadro – oggi conservato alla National Gallery of Ireland – rappresentò sempre per Beckett un vero e proprio tesoro. Fu una delle poche che portò con sé durante la sua vita rocambolesca negli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Beckett vide fin dall’inizio, nei dipinti di Yeats, quasi una giustificazione della sua poetica in fieri che si sarebbe formata compiutamente solo nel decennio successivo. L’analisi più compiuta della pittura di Yeats da parte di Beckett si trova probabilmente in una lettera che il drammaturgo ancora in embrione inviò a McGreevy nell’agosto del 1937.
“[…] Pare che giovedì ci sia sempre qualcosa che mi impedisca di andare a trovare Jack Yeats. Quello che mi sembra lui colga benissimo, con freddezza, non con la tragicità di Watteau, è l’eterogeneità della natura e dei suoi abitanti umani, l’estraneità inalterabile dei due fenomeni, delle due solitudini, o la solitudine e l’essere soli, l’essere soli in solitudine, l’immensità invalicabile tra la solitudine che non può ravvivarsi nell’essere soli e l’essere soli che non può scivolare in solitudine. Non c’è nulla di simile in Constable, il paesaggio offre un riparo o minaccia, serve o distrugge, la sua natura veramente contagiata dallo “spirito”, in definitiva umanizzata e romantica come era quella di Turner e non quella di Claude né quella di Cezanne. Dio sa che in Irlanda non occorre neanche troppa sensibilità per avere la percezione di una natura quasi inumanamente inorganica come una scena teatrale. E forse proprio questa è la qualità ultima del dipinto di Jack Yeats, il senso della definitiva inorganicità di ogni cosa. Watteau lo ha sottolineato con busti e urne, alla fine i suoi esseri umani sono minerali. Un quadro di pure giustapposizioni inorganiche, dove non si può prendere né dare nulla e non vi è possibilità di cambiamento o scambio. Per esempio, trovo qualcosa di terrificante nel modo in cui Yeats mette la testa di un uomo e la testa di una donna fianco a fianco, o faccia a faccia, l’accettazione atroce di due entità che non si mescoleranno mai. E ricordi il quadro con un uomo seduto sotto una siepe di fucsia, che legge dando le spalle al mare e ai nembi? Non si capisce quanto siano immobili i suoi quadri finché non si guardano gli altri, quasi pietrificati, una sospensione improvvisa della rappresentazione, della convenzione di simpatia e antipatia, incontro e separazione, gioia e dolore. […]” (Da una lettera di Samuel Beckett a Tom McGreevy del 14 agosto 1937 – Thomas McGreevy era un collega di Beckett quando risiedeva a Parigi dove lavorava come lettore di inglese presso l’École Normale Supérieure. Divenne poi il suo più grande amico e confidente e lo introdusse a James Joyce.)
In questa missiva Beckett giudica Yeats capace di cogliere con freddezza l’estraneità di due fenomeni ben distinti. Beckett usa due termini inglesi – solitude e loneliness – le cui differenti sfumature di significato è difficile restituire in italiano. Laddove loneliness ha una connotazione prevalentemente negativa, una solitudine imposta potremmo dire, solitude esprime più che altro una solitudine scelta. (Nell’edizione italiana dell’epistolario, i traduttori hanno optato per “solitudine” e “esser soli”).
Quando dunque Beckett, nella lettera a McGreevy, parla de “l’essere soli in solitudine” potrebbe riferirsi al tentativo di leggere come una scelta autodeterminata la solitudine imposta dalla condizione umana. (Viene in mente il protagonista nel deserto di Atto senza parole che rifiuta la brocca d’acqua ormai a portata di mano dopo che i suoi precedenti molteplici tentativi di afferrarla erano falliti)
Nella stessa lettera, Beckett dirà anche “Dio sa che in Irlanda non occorre neanche troppa sensibilità per avere la percezione di una natura quasi inumanamente inorganica come una scena teatrale. E forse proprio questa è la qualità ultima del dipinto di Jack Yeats, il senso della definitiva inorganicità di ogni cosa.”
Far finta di non vedere
Ci sono molti personaggi non vedenti nelle prime opere di Beckett – Pozzo (“Aspettando Godot”), il signor Rooney (“Tutti quelli che cadono”), Hamm (“Finale di partita”) – ma si sa che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere e qui il peggior cieco è proprio Beckett che sembra cogliere, nella pittura di Yeats, solo gli elementi che fanno comodo alla sua poetica.
Da un lato si sarebbe tentati di vedere proprio Jack Yeats nel pittore di cui parla Hamm a un certo punto di “Finale di partita”, dall’altro sembra impossibile che quei cromatismi così violenti corrispondano alle opere di un artista che vede “solo ceneri”.
“HAMM: Ho conosciuto un pazzo che credeva che la fine del mondo ci fosse già stata. Dipingeva. Gli volevo bene. Andavo a trovarlo, al manicomio. Lo prendevo per la mano e lo tiravo alla finestra. Ma guarda! Là. Tutto quel grano che spunta! E là! Guarda! Le vele dei pescherecci! Tutta questa bellezza! (Pausa). Lui liberava la mano e tornava nel suo angolo. Spaventato. Aveva visto solo ceneri. (Pausa). Lui solo era sopravvissuto. […]” (Finale di Partita, traduzione di Carlo Fruttero)
Lo storico dell’arte Kenneth Clark dirà “il colore è l’elemento di Yeats in cui si tuffa e si spruzza con l’abbandono spudorato di una focena”. Già questo allontana la pittura di Yeats dalla scrittura di Beckett dove tutto è prevalentemente bianco, grigio e nero.
A oltre sessant’anni dalla morte la pittura di Yeats continua ad attirare opposte reazioni. Nella sua pittura convivono il Modernismo e il Nazionalismo, due correnti genericamente considerate in contraddizione.
Il Modernismo di Yeats passa attraverso l’Espressionismo, ma laddove l’Espressionismo gioca su emozioni viscerali quali la rabbia, la paura e la passione, Yeats esplora un più ampio spettro di sentimenti che fanno parte dell’esperienza umana quotidiana.
L’inumano nell’opera di Beckett
Eppure Beckett ha ragione quando parla di inorganicità delle figure dei dipinti di Yeats, del loro aspetto quasi minerale, di “singolarità irriducibili e in mezzo l’immensità invalicabile.”.
“[…] Assieme alla tua lettera ne ho ricevuta una di Tom. Sta scrivendo qualcosa su Jack Yeats, a quanto pare ispirato da una mostra di Constable e da una mia osservazione en passant sul Watteauismo di ciò che ha fatto di recente. Ogni giovedì sembra ci sia qualcosa che mi impedisce di andare da lui. Immagino che non voglio vederlo. Watteau metteva dentro busti e urne, immagino a suggerire l’inorganicità dell’organico – alla fine tutti i suoi esseri umani sono minerali, senza possibilità di aggiunta o sottrazione, pure giustapposizioni inorganiche – ma Jack Yeats non ha nemmeno bisogno di fare questo. Il suo modo di mettere una testa di uomo e una di donna fianco a fianco, o faccia a faccia, è terrificante, due singolarità irriducibili e in mezzo l’immensità invalicabile. Immagino sia questo a dare immobilità ai suoi quadri, come se la convenzione fosse d’improvviso sospesa, la convenzione e la rappresentazione di amore e odio, gioia e dolore, dare e ricevere, prendere ed essere presi. Una specie di intuizione pietrificata dell’estrema dura irriducibile inorganica singolarità. Il tutto trattato con l’accettazione distaccata che va oltre la tragedia Ho sempre la sensazione che Watteau sia un genio tragico, perché in lui c’è la pietà per il mondo come lo vede. Invece in Yeats non trovo pietà, cioè non trovo tragedia. Nemmeno compassione. Semplice percezione e freddezza. Anche come persona è piuttosto inumano, o tu non hai avuto questa sensazione? […]”(Da una lettera di Beckett a Cissie Sinclair, 14 agosto 1937 – Cissie era la sorella del padre di Beckett, dunque sua zia. Con Peggy, figlia di Cissie, Beckett ebbe la sua prima relazione sentimentale.)
Quanta similitudine si può trovare allora tra le silhouette quasi giacomettiane dei quadri di Yeats e alcuni personaggi beckettiani.
I tronchi umani Nagg e Nell nei bidoni della spazzatura (“Finale di partita”, ancora), l’io narrante seduto immobile del romanzo “L’innominabile”, Winnie conficcata nel terreno mentre suo marito Willie rotola alle sue spalle (“Giorni felici”), la bocca immersa nel buio (“Non io”), la spettrale figura muliebre di “Passi”, i due personaggi chiusi nella stanza bianca di “Quello che è strano, via” e “Immaginazione morta immaginate”.
Attraverso un lavoro di sottrazione – esercizio in cui Beckett eccellerà per tutto l’arco della sua carriera – lo scrittore “eliminerà” dai quadri di Yeats ogni elemento bucolico, romantico, solare e trarrà da quelle tele solo lo spazio vertiginoso che si apre tra loneliness e solitude.
Un’amicizia fatta di parole
E quando meno te lo aspetti… ecco Baudelaire! C’è un sonetto molto famoso del poeta francese, “Raccoglimento”
“Fa’ la brava, o mia Pena, e sta’ più tranquilla. / Tu invocavi la Sera; essa scende; eccola: / Un’atmosfera oscura avvolge la città. / Agli uni portando pace, agli altri affanno. / Mentre dei mortali la moltitudine vile, / Sotto la sferza del Piacere, questo boia senza pietà, / Va a cogliere rimorsi nella festa servile, / Mia Pena, dammi la mano; vieni qui, / Lontano da loro. Guarda affacciarsi i defunti Anni, / Dai balconi del cielo, in vesti antiquate; / Sorgere dal fondo delle acque il Rimpianto sorridente; / Il Sole moribondo addormentarsi sotto un’arcata. / E, come un lungo sudario trascinato verso Oriente, / Ascolta, mia cara, ascolta la dolce Notte che cammina.” (Charles Baudelaire, “Raccoglimento”, traduzione di Valerio Magrelli)
che il poeta italiano Valerio Magrelli considera una sorta di “prezzemolo” letterario del Novecento, visto che i suoi versi – spezzettati, rimaneggiati, destrutturati – compaiono qua e là nelle opere di autori come Nabokov, Queneau, Houellebecq. E Beckett, naturalmente.
Chi frequenta le pagine beckettiane conosce bene il monologo finale di Hamm in “Finale di partita”. L’attacco del monologo è proprio una citazione del sonetto di Baudelaire
“HAMM: […] Un po’ di poesia. (Pausa). Chiamavi… (Pausa. Si corregge) RECLAMAVI la sera; ed eccola che viene… (Pausa. Si corregge). CHE SCENDE. (Ricomincia, in tono declamatorio). Reclamavi la sera; ed eccola che scende. (Pausa). Mica male. (Pausa). […]” (“Finale di Partita”, traduzione di Carlo Fruttero)
e fin qui nulla che i critici non sapessero già. Ma è sorprendente come la struttura di quell’incipit ricalchi un dialogo tra Beckett e Yeats che lo stesso Beckett ricorda: “Un giorno dissi a Jack: questo paesaggio inumano evoca… provoca… l’inumano in sé. Lui rispose: Invoca, direi”.