All That Fall di Pan Pan Theatre all’Abbey, Dublino. Quasi una recensione.
Non avevo mai avuto occasione di vedere All That Fall. E continuo a non averlo visto…
All That Fall (Tutti Quelli Che Cadono) era nato dal genio di Samuel Beckett come un dramma radiofonico (prima programmazione 13 gennaio 1957), e tale è rimasto anche nella “non” messa in scena di Pan Pan (di cui avevamo recensito l’ottimo Waiting For Godot).
L’opera è una delle più citate in merito al tema della misopedia di Beckett, un tema che avevamo sfiorato a proposito del lavoro di Martin McDonagh, ed è una delle poche opere di Beckett che abbiano una contestualizzazione geografica irlandese (o meglio dublinese, i sobborghi “bene” del lato sud della baia di Dublino) e riferimenti biografici.
Did you ever want to kill a child
Nip some young doom in the bud.
Questa versione di Pan Pan non fa altro che confermarne la etereità radiofonica: è vero, si è a teatro, ma non in platea, bensì in scena, seduti su una delle decine di sedie a dondolo in legno, l’unico ornamento delle quali è un cuscino su cui fa bella mostra di sé un teschio.
In questo caso la quarta parete è traslata, e va a diventare un muro di riflettori che, però, non saranno (quasi) mai accesi completamente e che, con il loro illuminarsi intermittente, ricordano in fondo le valvole di una vecchia radio.
Gli attori sono completamente ridotti a voci: non saranno mai visibili, neanche alla fine della rappresentazione.
Così, se Beckett non bastasse da solo a portarvi a teatro (fino al 20 febbraio), questa specifica produzione offre una occasione per riflettere, in una società dominata dal visuale, sulla importanza della voce e della sua incorporeità.
Per un’ora e qualche minuto si rimane sospesi in un limbo di non – visibilità, immersi completamente nell’incubo beckettiano fino al suo comunque spiacevole – grazie a un accorgimento scenico – epilogo.
Un incubo, appunto, di sole voci e suoni, completamente buio, quindi invisibile, se non fosse per la volta di lampadine che non si accendono e che baluginano come ceneri solo del riflesso di quella vecchia radio a valvole, madre – matrigna, forse, della televisione che l’avrebbe poi divorata.