dublinesi al pub

Un racconto irlandese: il solstizio, la pinta e il funerale

Dopo due storie ambientate a Newgrange, un’altra storia irlandese “di solstizio”, ma ambientata in Italia…

I precedenti racconti dedicati al solstizio d’inverno

Il solstizio, la pinta e il funerale

Emigrare significa, per qualcuno, non sentirsi mai più a casa.

Per qualcun altro, invece, significa tornarci, a casa. Una casa che ti sei scelto, o che ti ha scelto, magari; una casa che non ha niente a che vedere con dove sei nato, o con il tuo DNA.

Così faccio i viaggi al contrario.

Per il periodo natalizio vado via da casa, e torno, invece, dove sono nato.

L’aeroporto è silenzioso. Il Terminal 2 sembra finto, l’aeroporto vero è quell’altro, dài.

In qualche modo la notte passa, il tempo una melassa vischiosa.

Viaggio leggero. L’unico modo in cui si dovrebbe viaggiare. Così passo i controlli in un attimo. È ancora presto, ma lentamente anche questo finto aeroporto si anima.

Il gate, il volo.

Chi occupa la poltrona accanto alla mia – sull’altro lato, il corridoio – è senza ombra di dubbio irlandese. È anziano, con una barba caprina grigia. E quegli occhi che mi sorprendono sempre. Quegli occhi che ti fanno venire il dubbio sulla umanità di chi ti ci sta guardando attraverso. Occhi che ti fanno pensare agli elfi.

O ai gatti.

– Italiano?

Non sanno resistere, c’è poco da fare. fa parte di quell’essere più umani, invece, questa attenzione per il – letteralmente – prossimo tuo.

– Sì.

– Torni a casa?

– Vivo qui.

– Come mai?

– È una lunga storia.

– Ma io sono un buon ascoltatore.

Sorrido.

Alla fine essere umani, probabilmente, si riduce a questo: essere un buon ascoltatore del prossimo tuo.

Questo signore – non importa qui il nome, se è il Paddy o il JP della situazione, non importa se è innamorato dell’Italia per il cibo o per le donne o per le auto: è l’Ascoltatore – non lo sa che ha trovato pane per i suoi denti. O per le sue orecchie.

C’era una volta un pub, potrebbe cominciare così questa storia. E con questo sembrare una storia irlandese.

E in effetti lo è, una storia irlandese, anche se non è ambientata in Irlanda.

C’era una volta un pub, un pub irlandese, in Italia, nella città in cui sono nato. E quel pub era un luogo a sé.
Non lo so se sarebbe potuto essere un luogo a sé anche se non fosse stato un pub irlandese.
Ma quel posto, sì, era un luogo a sé.

Potresti pensare che i luoghi a sé hanno una specie di magia autoprotettiva. Sono luoghi che, se tu non fai per loro, non ti fanno neanche entrare.

Se sei uno dei fortunati, dei prescelti, allora inizi a fare parte di quel luogo. Le pinte aiutano, ma sono solo una parte della magia.

Quando ci sei dentro capisci che un posto del genere è, in qualche modo, fuori dal tempo e dallo spazio. È una specie di porto per chi non saprebbe dove altro andare. Li vedi i tuoi compari, e vedi te stesso, nello specchio dedicato al peggiore dei whiskey irlandesi, che sono, che siete, diversi.

Che potreste essere solo lì. Che con i locali (i locali locali, dove vanno – ahimé – i locali…) non avete niente a che vedere. Vi ignorate, non siete compatibili. Siete voi l’altro, per loro.

Quel pub era il luogo in cui festeggiavo il solstizio d’inverno. E non solo. Ci sarebbe da ricordare anche una Pasqua pagana, festeggiata con un esproprio proletario e il cioccolato al posto dell’agnello di Dio, ma questa sarebbe un’altra storia.

Intanto, poi, siamo su questa terra. Non esistono gli elfi, e i luoghi magici non esistono. Così il pub non era un pezzetto di un’altra dimensione, ma soltanto un locale poco frequentato dai locali e, pertanto, destinato a chiudere.

Così questo solstizio è anche un funerale da celebrare, quello di un posto che non esiste più.

Andrò al pub, pub che non è più tale, adesso è un locale, che nel nome ha qualcosa che finisce con -eria; andrò a celebrarne il funerale, portandomi una lattina di Guinness made in Belgium per l’occasione, brindando a un amico che non c’è più, un amico che era, per me, un pezzetto di casa mia.

Un pezzetto d’Irlanda.

Intanto mi trovo nella città in cui sono nato.

Ma a gennaio tornerò a casa.

 

Max O’Rover,

dedicato a Martina Bonati

About maxorover

Ebbene sì. Max O'Rover parla anche Italiano. E in Italiano scrive. Un Irlandese con la geografia contro, ecco chi è Max O'Rover. Il falso vero nome (quindi vero o falso?) di Max O'Rover è, ovviamente, in Irlandese: Mach uí Rómhar. "Rómhar" è il ventre, ma anche il ventre della terra, quello in cui crescono i semi, in cui nascono gli alberi. Mica male per essere uno che non esiste, avere un cognome così evocativo. Prima o poi la scriverò, la vera falsa storia degli uí Rómhar. La storia del perché ci hanno cacciato via. Una storia fatta di boschi sacri che non abbiamo difeso, di maledizioni scagliate contro di noi da Boann. Un pugno di druidi falliti costretti a scendere a sud. Fino a che la maledizione sarà spezzata. Fino a quando potremo tornare. Quando sono in pausa pranzo, ogni giorno, mangio una mela. Non getto mai i semi della mela nella spazzatura. Li getto nel prato. Perché sotto sotto ci credo, alla maledizione. Mi ricordo la maledizione. Ma non ricordo quanti alberi devo far crescere: dieci? Mille? Un milione? Intanto continuo a gettare i semi nel prato, e ad aspettare il ritorno a casa.

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