dublino

Diario d’Irlanda: sei settimane in un’altra città

Scrivo mentre sto tornando a Casa. A Dublino, Irlanda.

Sono in treno.

Ci hanno appena fatto cambiare carrozza. Qualcuno si è messo a tossire, c’è qualcosa nell’aria.
Qualcosa di irrespirabile.

L’Italia mi saluta così.

Sulla sinistra il mare della Liguria. Da qualche parte Portovenere, con la chiesa usata da John Banville per “uccidere” Cass Cleave.

Sono state sei settimane lunghe. Sei settimane difficili, spiacevoli come l’odore che solo gli ospedali hanno.

Erano ormai due anni che non rimanevo in Italia così a lungo, e sono state sei settimane importanti.
In primo luogo perché siamo ancora tutti vivi.

Il che non guasta.

In secondo luogo perché mi hanno permesso di fare i conti con la persona che sono diventato.

Sono tornato su alcuni “luoghi del delitto”, sono tornato a vedere alcune persone. Alcune persone che avevo creduto di aver perso, e altre persone che adesso sono sicuro di avere perso. Ma ne volevo la conferma, e non volevo avere dubbi.

Sono una persona diversa, e sono una persona diversa a causa dell’Irlanda. Sono una persona migliore grazie all’Irlanda.
Se credete che i luoghi non abbiano potere, che i luoghi non rappresentino una cura, ecco: io sono la dimostrazione del fatto che vi sbagliate.

Sono una persona razionale, filosoficamente e politicamente parlando un materialista. Quindi non sto parlando di qualcosa di magico. O meglio: questa è, sì, una specie di magia, ma niente che non sia da qualche parte, in qualche modo, spiegabile scientificamente.

Questa specie di magia è ciò che mi ha reso una persona migliore. Per migliore intendo una persona che ha iniziato a fare le cose che voleva fare, a vivere la vita che voleva vivere. Una persona che ha guadagnato qualche centimentro in altezza, perché adesso cammina più dritta, e che adesso riesce a ingoiare capsule e compresse medicinali senza dover bere un litro d’acqua.

Mi si dice che sia il quinto chakra che si è messo a posto, per quanto riguarda questa storia dell’inghiottire: quel groppo in gola, quello che faceva da tappo, non c’è più. Non c’è più da quando vivo in Irlanda.

Ho lasciato l’Italia due anni fa. Dopo la più grossa umiliazione che mi sia mai toccato subire in vita mia. Ho passato alcuni mesi terribili. Sono ancora vivo, siamo ancora tutti vivi e, chissà, forse questa storia avrà davvero un lieto fine. Quel

e tutti vissero felici e contenti in Irlanda.

Ho cercato, in queste sei settimane, di essere rigoroso, di essere scientifico, di non affidarmi a pregiudizi. Credo di esserci riuscito. E, anche dopo tutte queste analisi, queste riflessioni, la conclusione continua a rimanere la stessa: il posto in cui sono rimasto nelle ultime sei settimane non mi appartiene e io non gli appartengo. Non mi piace l’odore, e non mi piace quest’aria da lupi tristi che ho visto su tante, troppe facce.

Mi manca, mi è mancata Casa. Mi mancano le strade abitate ancora da esseri umani invece che da automobili. Mi manca la pioggia che pulisce. Mi manca il poter avere un posto dove andare, il non avere questa sensazione di aver bisogno dei sacchi di sabbia alle finestre.

Già: non sono andato in nessun posto. Se escludo gli appuntamenti di lavoro, non sono andato da nessuna parte. E, come mi ha detto un saggio irlandese, è meglio non fidarsi delle cose che non portano da nessuna parte.

Ho passato molte ore da solo, e delle ore che non sono stato solo le uniche che ho passato in compagnia di amici le ho passate a un pub. Un altro posto che è come se avesse i sacchi di sabbia, un altro posto che comunque è a parte, dietro le quinte, che comunque non è esattamente .

Tra una galleria e l’altra la costa ligure continua ad accompagnarmi.

Mi piace la sua asprezza.

La carrozza del treno è rimasta chiusa. Nessuno ha capito che cosa ne abbia resa irrespirabile l’aria.

Tra qualche ora sarà di nuovo a casa.

Con tutte le difficoltà di un progetto che è ancora così lontano dalla sua realizzazione, che è ancora così lontano da quel lieto fine. Torno a Casa, con qualche centimetro in più e un groppo in gola in meno.

E torno a casa con la certezza sempre più forte che la mia appartenenza sia culturale. Perché è solo una appartenenza culturale che può giustificare il fatto che misuri la tua vita sulla scala dei valori che hai imparato leggendo gli autori del luogo a cui appartieni.

In un mondo dilaniato dai confini e dal dolore di chi cerca di attraversarli, e dall’ottusità di chi continua a erigerli, io ho chiesto non asilo politico, ma – come dire? – asilo culturale al Paese che sentivo mio.

E, in fondo, come non pensare a Beckett e al suo Finale di Partita quando ti raccontano che due persone che si odiano sono costrette a continuare a sopportarsi in quell’azienda che sta perdendo i suoi ultimi pezzi, loro uno necessario all’altro nel circoscrivere la loro pochezza?

Io, ormai, fortunatamente per me, sono altrove.

Una postilla sulla foto

Questa foto io non mi ricordo neanche di averla scattata. Non riconosco il posto esatto, ma sì, è ovviamente Dublino.

C’è, in questa foto, buona parte della magia di questo luogo. Dove le luci e le ombre giocano un’altra partita. Forse è per questo che è un popolo di ottimisti, quello irlandese. Perché la luce, e il buio, funzionano in un altro modo.

About maxorover

Ebbene sì. Max O'Rover parla anche Italiano. E in Italiano scrive. Un Irlandese con la geografia contro, ecco chi è Max O'Rover. Il falso vero nome (quindi vero o falso?) di Max O'Rover è, ovviamente, in Irlandese: Mach uí Rómhar. "Rómhar" è il ventre, ma anche il ventre della terra, quello in cui crescono i semi, in cui nascono gli alberi. Mica male per essere uno che non esiste, avere un cognome così evocativo. Prima o poi la scriverò, la vera falsa storia degli uí Rómhar. La storia del perché ci hanno cacciato via. Una storia fatta di boschi sacri che non abbiamo difeso, di maledizioni scagliate contro di noi da Boann. Un pugno di druidi falliti costretti a scendere a sud. Fino a che la maledizione sarà spezzata. Fino a quando potremo tornare. Quando sono in pausa pranzo, ogni giorno, mangio una mela. Non getto mai i semi della mela nella spazzatura. Li getto nel prato. Perché sotto sotto ci credo, alla maledizione. Mi ricordo la maledizione. Ma non ricordo quanti alberi devo far crescere: dieci? Mille? Un milione? Intanto continuo a gettare i semi nel prato, e ad aspettare il ritorno a casa.

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