Buone cose mi accadono in Irlanda. Alla fine la differenza sta tutta lì, e non è solo nella mia testa.
Tra le cose buone che mi sono accadute in Irlanda, o almeno accadute al mio alter ego non scrittore, a quello orientato nel tempo e nello spazio (orientato è un parolone, ma tant’è), c’è quella di lavorare per Catherine Dunne.
Che per una persona che vuole lavorare con i libri, per una persona che legge autori irlandesi a ripetizione, per una persona per cui l’Irlanda è casa e il mal d’Irlanda una benedizione, lo si potrebbe considerare un punto d’arrivo.
E invece no.
È stato il punto di inizio di una incredibile avventura che mi ha portato a iniziare il mio quarto romanzo e a… Questo post.
Se fossi ancora in Italia, niente di tutto questo sarebbe mai accaduto.
Casa Irlanda, ecco quello di cui ho bisogno.
E grazie, veramente grazie di cuore, Catherine.
CD
Tutti gli scrittori sono degli outsider. Ti senti più outsider in Italia, dove sei nato, o in Irlanda, dove vivi?
MO’R
In Italia.
Senza dubbio.
Ho speso i primi trent’anni della mia vita a pensare, semplicemente, di essere sbagliato.
Era facile arrivare ad avere quella sensazione, trarre quella conclusione: perché ero diverso dalle persone attorno a me.
Cito spesso Christian Morganstern: “casa è dove ti capiscono”.
E io, in Irlanda, mi sento più compreso, mi sento parte di qualcosa. Meno outsider. E poi ora sono un North – sider! ;-)
CD
A proposito della scrittura hai detto che “è bellissimo essere chiunque tu voglia, almeno per un po’”. È questo che ti spinge a scrivere, la possibilità di entrare sotto la pelle di qualcun altro?
MO’R
Decisamente.
La prima cosa importante, quando ho cominciato a scrivere (meglio: quando ho cominciato a provare di provarci) era la storia.
La necessità, il bisogno di raccontare una storia.
Ma poi ha preso il sopravvento questo aspetto del poter pensare in un altro modo, tentare di approcciare la realtà da un differente punto di vista.
La realtà virtuale non ha assolutamente niente di nuovo: è sempre stata là fuori, nel raccontare storie.
Ma per esperire una realtà alternativa devi essere qualcun altro.
Scrivere dà questa favolosa sensazione, questa meravigliosa opportunità.
CD
Qual è l’aspetto della vita di oggi che trovi più alienante, in Irlanda o in Italia?
MO’R
La mancanza di empatia. Ma più in Italia che in Irlanda… OK: sono di parte…
CD
L’opera di Roddy Doyle ha chiaramente avuto un profondo impatto su di te. Ma che cosa cerchi nella narrativa che leggi?
MO’R
La mia famiglia è di estrazione proletaria.
Mio padre rimase senza lavoro proprio come Jimmy Rabbitte Sr..
Mia madre si è ritrovata a dover fare le pulizie come Paula Spencer (se non altro non aveva come marito uno s*o come Charlo…).
Era facile vergognarsene.
E non avevo gli strumenti giusti per affrontare la situazione. Quello che amo nel lavoro di Roddy è la dignità che ha dato al proletariato.
Non compassione né indulgenza. Ma dignità.
Comunque: naturalmente Roddy Doyle non è l’unico scrittore che leggo!
Amo un altro autore irlandese: John Banville.
Mi piace perché usa le parole come pennelli e tavolozza. Amo Tolkien, e Neil Gaiman.
E qui siamo in tema di fuga dalla realtà, suppongo.
E ho imparato molto sulla tenacia da una scrittrice irlandese. Qualcosa che aveva a che fare con una scimmietta…
CD
Le tue foto dimostrano anche una forte visualità. Le tue foto dell’Irlanda sono bellissime. C’è una qualche relazione tra il tuo fotografare e raccontare l’Irlanda?
MO’R
Citando (di nuovo!) Roddy: credo che in una vecchia intervista abbia dichiarato di essersi dato alla scrittura perché era troppo scarso nel calcio prima e nella musica poi.
Io ero un secchione: mai neanche passato vicino a qualcosa di vagamente sportivo.
E la musica non ha mai fatto per me. Il fatto è che sarei voluto essere un pittore, perché da un lato per me esperire la realtà è soprattutto vederla, dall’altro ho sempre avuto la sensazione di dover fare qualcosa di creativo perché avevo dentro di me qualcosa da raccontare.
Solo che con matite e simile ero proprio una schiappa…
La fotografia, soprattutto quella digitale (puoi fare un sacco di errori: niente pellicola sprecata…) è il mio modo di tornare alle arti visuali.
Anche la mia scrittura è visuale, comunque.
Vedo delle cose (là fuori nel mondo reale, oppure nella mia mente: quando non ho incubi faccio sogni bellissimi) e ne scrivo.
CD
Gli emigrati distinguono tra la casa in cui vivono – il Paese che li ha accolti – e casa ancestrale – il paese da cui provengono, la “casa del loro cuore” -. Ho il sospetto che su questo tu abbia un punto di vista diverso, vuoi parlarne?
MO’R
Io sono a casa adesso. La mia casa è qui, in Irlanda, a Dublino.
A quanto pare sto costruendo la mia casa del cuore nel paese in cui non sono nato, ma che sento mio.
C’è una bellissima frase in una canzone di Glen Hansard che ho sempre sentito come se fosse stata scritta per me:
“Prendi questa barca che sta affondando e puntala verso casa.”
Sono arrivato in Irlanda nel 2014, senza lavoro e umiliato.
Ho portato a casa la barca.
Sono ben lontano dal “e tutti vissero felici e contenti”, ma quella è una gran bella sensazione.
Anche per me l’Irlanda e’ casa, 10 anni di me che ho lasciato andare alla deriva venduta al buon senso della ragione. Ora la sfida è riempire il vuoto che dal fondo dello stomaco sale alla gola come un nodo invisibile e mi annega nella dolcezza liberatoria del pianto.
Un enorme in bocca al lupo per la sua nuova vita in Irlanda e di scrittore.
Grazie mille Pilar, di cuore.
Ádh mór agus gach beannachtaí