Da queste parti ci siamo convinti che Martin McDonagh sia un genio. Tanto da dedicargli un “posto speciale” su ItalishMagazine. E se i geni in famiglia fossero due..? Sembra proprio così, dopo aver visto Calvary.
Calvary / Calvario è il secondo film di John Michael McDonagh. Dopo aver scritto la sceneggiatura di Ned Kelly John Michael ci aveva regalato quel piccolo gioiello tra poliziesco e commedia che risponde al nome di The Guard.
Un film divertente e ben fatto, che in Irlanda era piaciuto molto, ma che non sembrava assolutamente poter competere con la vena più profonda dell’altro McDonagh, Martin, che aveva nel frattempo consolidato la sua poetica fatta di humour nero e citazioni metacinematografiche e metaletterarie da In Bruges a Sette Psicopatici. Ma con Calvary / Calvario John Michael compie un enorme passo in avanti nella scrittura e nella composizione della storia e ci costringe a chiederci: ma che cosa aspettano a mettersi a lavorare insieme come i Cohen..?
The Guard, Calvary: verso una trilogia?
Calvary / Calvario, a detta di John Michael e di Brendan Gleeson (attore importantissimo per entrambi i fratelli, evidentemente) è “nato” in un pub in Connemara, durante la lavorazione di The Guard: il progetto diventava un “affare di famiglia” e una trilogia: al Connemara della madre dei McDonagh, teatro d’azione del Gleeson poliziotto, si aggiungeva la Sligo del padre dei McDonagh e, a quanto pare, si aggiungerà la south Irish London in cui i due fratellini McDonagh sono nati e cresciuti, vacanze irlandesi a parte, e in cui dovrebbe muoversi un arcigno Gleeson (ancora!) paraplegico che odia i “normali”.
La Settimana Santa
Ma occupiamoci di Calvary / Calvario. Siamo a Sligo. Un prete sui generis (Brendan Gleeson) con tanto di figlia (Kelly Reilly) “da una vita precedente” (padre James Lavelle ha sentito la vocazione dopo essere rimasto vedovo) viene minacciato di morte nel buio del confessionale, la domenica delle palme. Una scena “familiare”, visto che corriponde a quella di In Bruges in cui Ciarán Hinds viene minacciato (e non solo) da Colin Farrell.
Il film ci accompagna fino alla domenica di Pasqua attraversando tre sacrifici (un luogo, una persona, un animale: anche nell’altro McDonagh troviamo uno dei temi che in Martin avevamo definito beckettiano, quello dell’empatia animale) e un rito di espiazione (la vocazione ha di fatto reso doppiamente orfana la figlia di padre James, non senza conseguenze).
Morire di domenica
Mentre padre James si avvicina al giorno in cui aspetta e si aspetta di essere ucciso lo seguiamo nel suo occuparsi di uno sconclusionato gregge di pecorelle, smarrite nei modi più disparati: dal prete senza vocazione (David Wilmot: presente quasi in tutti i film irlandesi più importanti, splendido sociopatico in The Guard!) al ricco che ha i soldi ma nessun valore (Dylan Moran), alla ninfomane o alla moglie picchiata, alla fauna del pub, a un altro (dopo quello di Patrick McCabe: difficile non leggere questo personaggio chiave come un omaggio di John Michael al romanziere) garzone del macellaio (Chris O’Dowd), alla fresca vedova (Marie-Josée Croze) che non è uno dei personaggi principali ma alla quale è riservata una delle scene più importanti del film (dedicata all’invisibilità del dolore altrui) e una battuta chiave: I can’t go on, I will go on che ovviamente non è tanto di John Michael quanto uno dei grandi vecchi della letteratura irlandese: Samuel Beckett.
Accadrà ciò che deve, sotto un Golgota che assume la forma della terribile bellezza del Ben Bulben e una infinita valle di lacrime dal grigio oceano che si frange sull’ancor più grigia costa della Contea cara a Yeats.
La speranza non muore, però: vive nella possibilità del perdono.
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