Embers, Samuel Beckett, Pan Pan: la recensione

Il sedici Agosto scorso eravamo alla penultima replica dublinese (presso il Samuel Beckett Theatre del Trinity College) di Embers, adattamento teatrale del radiodramma di Samuel Beckett del 1957 (in onda nel ’59), messo in scena dalla compagnia Pan Pan Theatre, impegnatissima con Beckett questa estate: insieme a Embers Pan Pan ha affrontato anche All That Fall, portandolo all’Edinburgh International Festival (Festival a sua volta “ad alto tasso Beckett” grazie a Eh Joe con Michael Gambon.

Embers @Beckett Theatre

Embers: un (altro) orfano irlandese

L’allestimento scenico è dominato dal gigantesco teschio che rappresenta il… Godot della situazione. Perché, sì, anche Embers ha come personaggio, per così dire, una assenza, e questa assenza è un padre. E l’assenza del padre, come riflettevamo con Cathal Black (a breve su Italish la nostra intervista al regista irlandese), è uno dei grandi temi della letteratura irlandese, da Joyce a Banville / Black, con il suo Quirke che è, per così dire, un padre che ha “dato le dimissioni”.

Embers by Pan Pan

E nel caso di Embers lo ha fatto nel modo più diretto e definitivo: suicidandosi e, nel suicidio, scomparendo completamente dall’esistenza:

We never found your body, you know.

Scopriamo ben presto che il palcoscenico rappresenta una spiaggia e, da qualche parte là sotto, il corpo, il teschio, del padre suicida di Henry (Andrew Bennett).

E nel teschio vanno ad annidarsi Henry e Ada (Áine Ní Mhuirí), soggetto e oggetto di una vita fallimentare.

Perché, come altri orfani irlandesi (primo tra tutti Joyce), Henry non è migliore di suo padre. Anzi, peggiore forse, perché se suo padre è riuscito, almeno, a finire, a finirsi, Henry invece resta, permane, in una attesa tra il nulla e il nulla, paralizzato su quella spiaggia senza riuscire a scrivere, o quantomeno a raccontare, la storia di Bolton e senza riuscire a costruire un rapporto con Ada stessa.

A circondare la non-storia di Henry e Ada una meta-tematica tipica di Beckett: non sapremo mai, in Embers come in molte (tutte!?) le altre opere beckettiane, chi è chi e che cosa è che cosa. Non sappiamo e non sapremo mai se Henry sta cercando, usando il personaggio di Bolton, di raccontare suo padre (o di raccontare sé stesso, qualora Bolton fosse la trasposizione “fittizia al quadrato” del narrante) . Non sappiamo e non sapremo mai se Ada esiste, o sia mai esistita, o se sia una allucinazione di Henry.

Ma del resto non sappiamo neanche se Henry esista o meno, e sia, magari, soltanto l’ultimo pensiero rivolto al figlio, invischiato tra i neuroni di un padre che sta annegando.

Niente certezze, quindi. Solo esposizione, un occhio che guarda un cumulo di rovine senza senso (del resto Beckett dichiarò: The only chance of renovation is to open our eyes and see the mess. It is not a mess you can make sense of – Tom F. Driver, Beckett by the Madeleine – interview – Columbia University Forum IV – Summer, 1961).

Quindi, Embers: puro Beckett…

Link O’Teca

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Massimiliano "Q-ROB" Roveri writes on and about Internet since 1997. A philosopher lent to the IT world blogs, shares (and teaches how to blog and share) between Ireland and Italy.

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