Banville, Vander, Nietszche: Nietzsche in “L’invenzione del passato”
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Premessa
In uno spazio non soggetto alle leggi della temporalità e non esposto, almeno apparentemente, ai processi di nascita, decadimento e morte del mondo naturale, il protagonista del romanzo L’invenzione del passato, Axel Vander, trascorre, non senza qualche inquietudine, quel che resta della sua vita.
Ad Arcady, in un luogo che rievoca al lettore la bellezza ideale del mondo classico, vivono l’una accanto all’altra una serie di entità fantasmagoriche, sussistenti senza forma alcuna di rapporto ed accomunate, nel loro essere punti a-temporali e a-storici, dalla comune volontà di tenere celato al mondo e all’Altro quell’insieme di emozioni, di esperienze, di ricordi e di pensieri riconducibili ad un’identità somatico-spirituale, ad un io.
Improvvisamente il tempo irrompe in questo spazio irreale. Ad essere ancora più precisi: esso squarcia il cielo di carta di Axel Vander, che viene messo davanti all’inganno su cui poggia la sua figura di studioso di fama internazionale. Un postino, identificato con Ermes, recapita il messaggio sconvolgente. Il messaggio di una donna, di Cass Cleave, che sembra possedere la chiave d’accesso al passato tenebroso di Vander. È l’andare incontro alla propria rovina, unita ad una flebile speranza di riscatto, a far maturare nel personaggio di Banville la volontà di affrontare sé e la propria accusatrice in un luogo lontano dal calore anestetizzante di Arcady, a Torino, in quella città che vide l’apogeo e il tracollo del “compagno di strada” di Vander, di Friedrich Nietzsche. Andare a Torino e lì cadere come Nietzsche, oppure andare a Torino mossi dalla speranza di ritrovare con e attraverso Nietzsche quel sé andato perduto proprio a causa di una lettura distorta del suo pensiero? Una domanda, questa, alla quale cercherò di dare una risposta in quanto segue.
1. Ciò che di Nietzsche rivive in Vander
La lettera di Cass Cleave imprime un movimento inaspettato alla vita di Vander. Una delle conseguenze di questo moto indotto è la messa in discussione di un punto fermo del suo pensiero, ossia della natura fittizia, o della non esistenza, dell’io. Prima di valutare fino che punto la visione del mondo di Vander sia scossa dal confronto con il suo sé rimosso ed il suo passato, è bene interrogarsi su quelli che possono essere considerati i capisaldi teorici del nostro personaggio, perché soltanto grazie ad una messa a fuoco di questi principi sarà possibile appurare la profondità o superficialità della crisi prodotta dalla lettera di Cass Cleave nell’Arlecchino di Banville.
Una premessa, per quanto scontata e banale, deve essere fatta. Axel Vander è a tutti gli effetti un uomo del ‘900. Se si prende per vera un’affermazione di Franz Rosenzweig, filosofare nel XX secolo significa fare i conti con quel pensiero che ha assestato il colpo di grazia alla fede occidentale nei sistemi capaci di giustificare e spiegare esaurientemente il perché ed il per come del reale. Ovviamente, la riflessione filosofica radicale e dissacrante, che ha auscultato gli idoli dell’Occidente, è quella di Friedrich Nietzsche[1]. Dalla decostruzione nietzschiana della metafisica occidentale segue uno zero o un nulla ricolmo di nuove possibilità per il genere umano, che può guardare in faccia il negativo mosso da una ridestata volontà creatrice. Estrinsecare un contenuto da questo nulla è il compito che Nietzsche affida al superuomo e che Axel Vander, da cattivo allievo di Nietzsche, non riesce a portare a termine. Il fallimento di Vander, questo suo dire-di-no alla vita, si costruisce a partire dal travisamento di alcuni concetti chiave dello Übermensch nietzschiano, quali la morte di Dio, la natura illusoria dell’io, la volontà di potenza e la teoria dell’eterno ritorno. Per appurare l’entità di questa mistificazione del pensiero di Nietzsche, sarà utile vedere in che cosa consistano questi nuclei teorici del filosofo tedesco e come si articolino nella definizione dell’uomo nuovo vaticinato da Zarathustra.
In uno dei passaggi più discussi e noti della Gaia scienza, Nietzsche consegna all’Occidente il nuovo vangelo: Dio è morto[2] e con lui è deceduta tutta la morale del risentimento e della compassione tipicamente cristiana. A questo crollo dell’impalcatura metafisica ed etica dell’Europa cristiana, segue un’aurora nascente (Morgenröte im Aufgang): l’ateismo, definito in un passaggio della Genealogia della morale come una seconda innocenza del genere umano[3], simboleggia l’aprirsi dell’uomo occidentale ad un ignoto carico di aspettative e di nuovi sviluppi. Assieme a Dio precipitano anche i concetti di coscienza, di libero arbitrio e di responsabilità, ossia tutte quelle categorie etiche forgiate dall’uomo del risentimento per attuare a) la propria volontà di potenza e b) il rovesciamento della morale dei signori. Così scrive Nietzsche nel Crepuscolo degli Idoli
«Gli uomini vennero ritenuti liberi per poter essere giudicati e puniti – per poter essere colpevoli: si dovette perciò pensare ogni azione come voluta, e l’origine di ogni azione come situata nella coscienza […] Nessuno è responsabile della sua esistenza, del suo essere costituito in questo o in quel modo, di trovarsi in quella situazione e in quell’ambiente. La fatalità della sua natura non può essere districata dalla fatalità di tutto ciò che fu e che sarà […] Si è necessari, si è un frammento di fato, si appartiene al tutto, si è nel tutto – non c’è nulla che possa giudicare, misurare, verificare, condannare il nostro essere, giacché questo equivarrebbe a giudicare, misurare, verificare, condannare il tutto… Ma fuori del tutto non c’è nulla! –»[4].
Questo amor fati nietzschiano, questa forma del tutto personale di spinozismo, spalanca all’uomo la possibilità di ricostruire la propria coscienza, o la propria identità personale, a partire da quel vuoto creatosi dalla morte del valore dei valorie dallo sgretolamento dei valori etici ad esso subordinati. L’Übermensch, l’anticristo o l’anti-nichilista può dar vita ad una nuova costruzione di sé: rendere istintivo il sapere, incarnandolo in sé e strutturandolo come il fondamento della propria coscienza e della propria volontà, significa dare avvio ad un legame soggetto-oggetto in grado di cogliere nella sua pienezza le molteplici sfaccettatura del reale. Acquisire una nuova coscienza, lasciandosi alle spalle il retaggio della tradizione cristiana[5], è la chiave per diventare «vincitore di Dio e del nulla»[6], per maturare, cioè, una volontà di sapere che spinga l’uomo nuovo ad un confronto globale con ciò che è senza «quell’avversione alla vita e quella rivolta contro tutti gli assunti fondamentalissimi della vita»[7] tipici dello spirito del ressentiment. Sposare l’innocenza del divenire, assumere su di sé lo spirito dionisiaco dipende anche da una determinata concezione della temporalità, che si aggiunge, adesso, a quanto detto in precedenza. È la teoria dell’eterno ritorno, ossia il concepire «l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza un finale nel nulla»[8], che rende carica d’aspettative una realtà resa nuovamente innocente dalla nientificazione dell’eredità metafisica occidentale. Sposare appieno l’essere con la consapevolezza che «ogni cosa indicibilmente piccola o grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra gli alberi e così pure questo attimo ed io stesso»[9] significa attribuire unicità e pienezza a tutti quegli attimi e a tutte quelle esperienze costitutive del nostro essere-nel-mondo. Dire di si al peso più grande consente d’affermare una nuova concezione del rapporto sé–ente libera da qualsivoglia freno metafisico-teologico e finalmente capace d’esprimere una volontà di potenza affermatrice, non negatrice o castratrice, della vita.
A grosse linee sono queste le coordinate concettuali che permettono di comprendere l’interpretazione della filosofia di Nietzsche data da Axel Vander. Fin dalla gioventù, il nostro personaggio si professa aperto sostenitore del pensiero nietzschiano. Se in un primo momento l’adesione di Vander alla filosofia di Nietzsche sarà di natura politica, in un secondo momento essa assumerà una connotazione prettamente esistenziale. Le due fasi del nietzschianesimo di Vander ruotano attorno a differenti interpretazioni del concetto di io: ad una prima interpretazione dell’io “vitalistica” seguirà una radicale decostruzione del concetto di identità individuale. In altre parole: alla lettura primonovecentesca della filosofia di Nietzsche seguirà una lettura post-moderna del pensiero nietzschiano.
2. Il nietzschianesimo di Vander
Seguendo il flusso dei fatti narrati da Vander, analizzeremo prima l’accezione politica e poi l’accezione decostruzionista del suo nietzschianesimo.
Il protagonista del romanzo di Banville – colui che assume l’identità di Axel Vander – ha origini ebraiche. La volontà di disfarsi delle sue radici e dell’eredità culturale del suo popolo lo spinge a sposare una visione politica di estrema destra. Realizzare l’Idea, ossia un ideale di bellezza e forza, esige un’eliminazione o un’asportazione dell’elemento giudaico dalla società. Rovesciare la volontà di potenza dell’uomo del risentimento significa, in altre parole, operare una contro rivoluzione nei riguardi dello spirito del giudaismo, ossia di quella volontà di potenza che sia per Nietzsche che per Vander ha minato l’originaria nobiltà dell’uomo[10]. «Estetizzare la vita nazionale, sfuggire all’angoscia dell’io sublimandola in un’etica totalitaria»[11] è il risultato da raggiungere ad ogni costo, anche a costo dei più alti sacrifici e delle più aberranti azioni, perché alla fine «deve trionfare l’Idea, deve avere inizio la grande instaurazione!»[12]. Un popolo bello e forte, libero dall’angoscia dell’io, dal concetto di colpa e di responsabilità, è un popolo di dominatori a cui tutto è concesso, perché l’Idea è da esso incarnata e da esso trasposta nel piano dell’essere. In questo contesto, sublimare l’io consente d’abbracciare una dimensione estetica della vita che sia espressione della vitalità repressa dell’uomo nobile. Dopo due secoli di dominio dell’uomo del sottosuolo, la forza e la bellezza possono tornare al posto che spetta loro, ossia ai vertici della società. Abbandonare il concetto di io giudaico-cristiano assume il significato di una liberazione delle energie represse del genere umano e di una loro integrazione in una dimensione politica estetico-totalitaria.
Niente è più lontano da Nietzsche che l’idea di una sublimazione dell’io in un sistema etico totalitario, di un trionfo dell’Idea ad ogni costo e dell’antisemitismo politico (condannato a più riprese, anche nei cosiddetti biglietti della follia[13]). Ma Vander, da buon figlio del suo tempo, assume alcune interpretazioni del pensiero di Nietzsche dominanti nell’Europa (Italia e Germania) della prima metà del XX secolo. Questa è in sostanza la prima mistificazione del pensiero nietzschiano operata dal protagonista dell’Invenzione del passato. Il suo entrare in crisi è determinato dagli effetti disastrosi della seconda guerra mondiale. Come vedremo, l’io non sarà più un qualcosa da sublimare, ma un guscio vuoto, un nulla, da riempire a proprio capriccio e piacimento.
Perduta la famiglia, i legami con la comunità giudaica ed una posizione nel Belgio occupato dai nazisti, Vander si vede costretto a fuggire in diverse parti del mondo prima di raggiungere le coste americane. Tutto è stato tolto a Vander, che si sente legittimato, come l’ombra descritta nello Zarathustra, a fare tutto ciò che vuole[14]. A causa della perdita di ogni certezza e di ogni presunta verità, Vander crede di potersi appropriare di ogni cosa per preservare il suo essere. L’idea dell’eterno ritorno, che balena al personaggio di Banville durante uno dei suoi spostamenti[15], si coniuga adesso con un nichilismo radicale: in un’esistenza senza senso e senza scopo, che non si risolve mai nel nulla, ma che ripropone e riproduce il già stato, Vander non opta per una nuova costruzione del sé incentrata sulla nozione di sapere, ma si risolve a volere l’assolutamente nulla, ad essere una pura possibilità capace d’assumere e di consumare qualsiasi forma data. La mancanza di un io stabile ed il tramonto dell’ideale di una sua sublimazione politica spingono Vander a considerare il concetto d’identità come qualcosa di fittizio, come un contenitore da riempire a seconda delle circostanze e delle occorrenze. L’uomo è un nulla, che vuole il nulla e che esistendo produce un nulla che è sempre stato, che sempre è e che sempre sarà. Nel progettare il suo viaggio in America, Vander palesa in modo chiaro questo suo nichilismo radicale:
«L’America era il vuoto […]. In America non mi sarebbe stato chiesto di essere qualcuno, né di credere in qualcosa. Nessuna causa avrebbe preteso il mio sostegno, nessuna ideologia avrebbe richiesto il mio impegno. Là sarei stato pura esistenza, un punto senza emozioni in movimento attraverso il tempo, un’argentea pallottola del nichilismo che trapassava ogni ostacolo e produceva fori nei fianchi di ogni monumento corroso dalle tarme della cosiddetta civiltà. Fede negativa! Sarebbe stata questa la base della mia nuova religione, un’appassionata e distruttiva fede nel nulla»[16].
Concepire l’esistenza come un puro esistere, non confinabile all’interno di un’unità psichico-organica, e come la possibilità d’attraversare e di corrodere ogni sussistenza data, permette a Vander di forgiarsi una nuova ed illusoria identità, che si struttura assumendo un’identità altrui. Dal nulla senza senso che è la realtà e dalla nullità del mondo interiore dell’uomo, Vander non riesce a trarre nessuna identità positiva, strutturata su una qualsivoglia nozione di sapere, ma dà forma ad un’organica volontà di mentire, alla menzogna fatta e resa unità organica dell’organismo. La menzogna o la negatività come sintesi dell’organico preclude una costruzione autentica del sé ed impedisce un rapporto pieno con la realtà. La conseguente chiusura alle possibilità creative aperte dalla morte di Dio e dal tracollo del concetto di “io” giudaico-cristiano deriva del segno negativo impresso a Vander al rapporto soggetto-oggetto: un soggetto vuoto, che si forgia un io ed una coscienza partendo da un impulso negativo – mendace – mina alla base l’apertura al mondo e il dire-di-si alla vita. Per Nietzsche vi deve essere un sapere su cui costruire la propria identità e a partire dal quale può svilupparsi un rapporto autentico con una realtà liberata dai suoi ceppi teologico-metafisici. Dire-di-si ha alla sua base un voler sapere; dire-di-no ha come suo presupposto un non voler sapere. Senza un io ed una coscienza da costruire e da coltivare non vi può essere nessun legame positivo con sé, con l’altro e con il mondo. Al nulla che Vander è ed al nulla che il mondo in sé e per questo nulla con il quale si relaziona è, non resta assolutamente nulla. Nell’interpretare la decostruzione nietzschiana dell’io, Vander astrae da quella dimensione di rifondazione e di ricostruzione della realtà umana così chiaramente percepibile nell’ultima e concitata fase di produzione del pensiero di Nietzsche, che ha proposto, con tutte le sue fragilità e contraddizioni, una via alternativa al vuoto lasciato dalla Götter-Götzen-dämmerung. Nulla ci resta di Vander. Nessuna utile informazione potrà essere tratta dall’abisso e dalla superficie della sua persona, poiché egli è
«un agglomerato di pose. Non c’è un oncia di sincerità in tutto il mio corpo. Mi sono costruito una voce, così come una volta mi ero ricostruito una reputazione, con materiale rubacchiato da altri. L’accento che senti non è mio, perché io non ne ho, di accento. Non credo a una sola parola uscita dalla mia bocca»[17].
Ciò che ci rende inaccessibile Vander è proprio questa seconda e più duratura mistificazione del pensiero nietzschiano, che si attua nei termini di un colossale travisamento della critica dell’io e della concezione del nichilismo dell’ultimo Nietzsche.
3. Alla ricerca di Nietzsche
La lettera di Cass Cleave scompiglia la fittizia e atemporale esistenza di Vander. Voler sapere – almeno per questa volta! – che cosa la ragazza sappia, spinge il personaggio di Banville ad intraprendere un viaggio a Torino, dove era stato precedentemente invitato ad un convegno. Andare incontro alla propria rovina sembra essere la prima volontà di Vander. Una volontà, questa, che è tutto sommato coerente con il suo volere sistematicamente il nulla. Andare a Torino, però, assume un significato più profondo. Assume, in altre parole, la dimensione di una ricerca del suo sé perduto. E come se la lettera di Cass Cleave avesse risvegliato in Vander una qualche speranza d’accedere nuovamente alla sua vecchia identità. Vander stesso, mettendo in discussione la sua decostruzione dell’io, ci dice:
«Avevo passato gran parte di quella che immagino di dover definire la mia carriera a cercare di far entrare in testa a quanti mi ascoltavano in mezzo alla teppaglia di ostinati sentimentali che mi circondava la semplice lezione che non esiste un Io: nessun Ego, nessuna preziosa scintilla individuale soffiata in ciascuno di noi da un celeste, barbuto patriarca, che neppure esiste. Eppure… Nonostante la mia insistenza, e con segreta vergogna, ammetto che neppure io riesco a liberarmi del tutto dalla convinzione di un durevole nucleo dell’Io in mezzo alla grande confusione del mondo, di un nocciolo immune dalla tempesta che può staccare le foglie del mandarlo e scuotere i rami che la sostengono»[18].
Questa volersi ritrovare assume la forma di una ricerca dei luoghi di Nietzsche e di ciò che è rimasto a Torino di Nietzsche, come se, così facendo, Vander potesse accedere nuovamente a quei resti del suo vecchio io da lungo tempo dimenticati. Sfortunatamente per Vander, Nietzsche è un personaggio solamente cercato e mai realmente trovato. La visita alla casa in cui visse il filosofo a Torino è spia di ciò. Nulla resta del luogo che lo ospitò, nessun resto della sua presenza è lasciato al visitatore. Quel luogo non preserva memoria alcuna. È abitato semplicemente da qualcun altro. Come l’identità di Vander del resto, che non trattiene in sé traccia alcuna di quello che fu e che si trova ad essere riempita da un qualcosa di estraneo. Questo non trovare Nietzsche a casa è metafora del non ritrovarsi di Vander in se stesso. Il vuoto della propria persona riempito da una menzogna rende impossibile un ritorno a sé ed alle proprie origini. L’episodio della sindone potrebbe essere letto in maniera analoga: come Nietzsche tentò un recupero della persona di Gesù – dell’idiota che ha accettato la natura tragica dell’esistere –, andando al di là delle mistificazioni operate dalla religione positiva, così Vander nel confrontarsi con lamenzogna delle menzogne potrebbe essere mosso dalla speranza d’accedere ad una dimensione di autenticità esistenziale ormai resa quasi del tutto inaccessibile dall’inganno di una vita. Ma anche in questo caso manca il confronto: Vander non ha modo alcuno di redimersi ed il velo di inautenticità viene preservato. Nietzsche e Gesù non ci sono per Vander. Nessuna riappropriazione del sé è contemplata per il protagonista dell’Invenzione del passato. Nemmeno il recupero di sé e delle proprie origini mediato da una nascita e da una nuova promessa d’innocenza gli è concesso. Alla pari di Creonte, che fa cadere in rovina tutto ciò che è suo[19], rimanendo, «nel suo essere un nulla»[20], completamente solo, Vander vaga, nelle battute finali dell’Invenzione del passato, per le deserte strade di Torino, accompagnato dalle voci dei suoi morti e diretto, ancora una volta, verso quel nulla assoluto dal quale non è mai riuscito a prendere congedo.
[1] Cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato, 1985, p. 26: «Da sempre I poeti avevano parlato della vita e della propria anima. Non così i filosofi. Da sempre i santi avevano vissuto la vita ed erano vissuti per la propria anima. Ma, di nuovo, non i filosofi. Poi venne un uomo che sapeva la propria vita e la propria anima come un poeta, alla loro voce ubbidiva come un santo ed era però un filosofo. Già oggi il contenuto della sua filosofia è quasi trascurabile […]. Ma lui, che nel mutare delle immagini del suo pensiero mutava se stesso, lui, la cui anima non temeva alcuna altezza e si arrampicava seguendo il temerario spirito scalatore su su fino alla scoscesa vetta della follia, dove non c’è più alcun oltre, proprio lui è quegli da cui nessuno di quanti devono filosofare può ormai prescindere
[2] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1993, pp. 162-163: «Dove se n’è andato Dio? Ve lo voglio dire! l’abbiamo ucciso – voi ed io! siamo tutti i suoi assassini! […] Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo ancora nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!».
[3] Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1993, p. 81: «Ateismo ed una sorta di seconda innocenza sono intrinsecamente connessi».
[4] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 2007, p. 65.
[5] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., pp. 63-64: «Si pensa che qui [nella coscienza] sia il nocciolo dell’essere umano: ciò che di esso è durevole, eterno, ultimo, assolutamente originario! Si considera la coscienza una stabile grandezza data! Si negano il suo sviluppo, le sue intermittenze! La si intende come unità dell’organismo! […] Poiché gli uomini ritenevano di possedere già la coscienza, si sono dati scarsa premura d’acquistarla».
[6] F. Nietzsche, Genealogia, cit., p. 87.
[7] Ibidem, 157.
[8] F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, Adelphi, Milano 2006, pp. 13-14.
[9] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 248.
[10] Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., pp. 13-45.
[11] J. Banville, L’invenzione del passato, cit., p. 139.
[12] Ibidem, p. 146.
[13] Cfr. F. Nietzsche, Lettere da Torino, Adelphi, Milano 2008, p. 75: «Sebbene finora abbiate mostrato scarsa fiducia nella mia solvibilità, spero tuttavia di dimostrare che sono uno che paga i suoi debiti – ad esempio quello nei vostri confronti… Sto facendo fucilare tutti gli antisemiti».
[14] Cfr. J. Banville, L’invenzione del passato, cit., p. 168: «Era su quell’elettrica possibilità che erano puntate tutte le mie reattive, crepitanti particelle. Finalmente. mi rendevo conto, ero un uomo completamente libero! Mi era stato tolto tutto, quindi mi era consentito tutto». Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1993, p. 318:« Nulla è vero. Tutto è permesso».
[15] Cfr. J. Banville, L’invenzione del passato, cit., p. 170: «Non ero disperato, non avevo nemmeno più paura in realtà, però non vedevo la fine di quel volo che avevo intrapreso e a volte avevo la sensazione che la mia vita sarebbe continuata così per sempre, con un’interminabile serie di viaggi, e che alla fine mi sarei ritrovato a rifare da capo lo stesso tragitto, rivedendo sempre lo stesso ragno, la stessa luna tra gli alberi, in continuazione». La battute finali di questa riflessione di Vander sono una ripresa esplicita della concezione nietzschiana dell’eterno ritorno formulata da Nietzsche nella Gaia scienza. Per il passo in questioni cfr. nota otto.
[16] J. Banville, L’invenzione del passato, cit., p. 186.
[17] Ibidem, p. 211.
[18] J. Banville, L’invenzione del passato, cit., p. 24.
[19] Cfr. Sofocle, Antigone, Einaudi, Torino 2014, p. 385: «Tutto ciò che è mio cade in rovina, sul mio capo si è abbattuto il destino, troppo pesante».
[20] Ibidem, p. 383
Foto: Ciro Lanzetta.